martedì 17 marzo 2009

QUANDO ERO L'UOMO RAGNO di Gianni Solla



Fui convinto di essere l’uomo ragno per quattro mesi circa, esattamente tra il Maggio e l’Agosto dell’ottantanove. Non parlavo con nessuno e me ne stavo tutto il giorno rintanato negli angoli umidi della casa. Frequentavo i garage e le cantine, i soppalchi e gli scantinati. Sapevo di avere i superpoteri tipici dell’uomo ragno, quelli di cui tutti siamo a conoscenza attraverso la televisione oppure i fumetti, ma in effetti non li usai mai. Non si poteva escludere che fossi impazzito, che il mio cervello si fosse attorcigliato, liquefatto, imputridito, scaduto, beccato dagli uccelli, nido di vespe, sceso nella spina dorsale fino alle caviglie e perso nei calzini. Insomma avete capito. Intendo quando diventi sordo e ti dondoli e raccogli le sigarette per strada e gli occhi girano veloci e roteano lungo l’asse come un mappamondo. Allora ti dicono che sei pazzo, scemo, ricchione, anarchico, terrone, e patofobico. Vedi gli oggetti che si muovono e parli con il videoregistratore, ma soprattutto sei sicuro di essere l’uomo ragno. Strisci su una parete e lanci ragnatele, penzoli dal lampadario e esci di casa usando la finestra. Attraversi la strada dondolanti su una ragnatela e la gente vede solo il blu e il rosso della tua tuta che si riflette meravigliosa nel cielo. Essere l’uomo ragno non è da tutti e non si può dire mica a tutti. Ci vuole un lavoro normale e abitudini discrete. La prima capacità richiesta per essere l’uomo ragno è quella mimetica, quella di confondersi tra la folla e tirare avanti silenziosamente nel traffico e negli uffici. Per essere come gli altri devi per prima cosa sudare come gli altri e svegliarti presto la mattina. Niente ci vorrebbe a tirare fuori la ragnatela e fiuu attraversare la strada e fiuu prendere la metropolitana. Essere l’uomo ragno significa essere prima di tutto un uomo. Certo se solo avessi provato a lanciare una ragnatela o a fermare una metropolitana in corsa, come nel film spiderman che poi significa sempre uomo ragno, avrei capito che dai miei polsi non ci sarebbe potuto uscire niente altro che il mio sangue da scimunito che ero. E neanche la superforza usai mai in effetti. Quando l’ascensore nel mio condominio non funzionava salivo a piedi tre piani e alla fine il cuore impazziva nella scatola toracica e affannavo sempre. Ma non usai mai i superpoteri. In quel periodo lavoravo in un supermercato e mettevo le etichette con i prezzi sulle scatole. Conoscevo i prezzi dei prodotti a memoria. Philadelfia 1700 lire, Tonno star 1400 lire confezione da 100 grammi, Tonno star da 200 grammi confezione famiglia super sconto 2100 lire (ottimo affare), stuzzicadenti marca Tiger confezione da 400 pezzi 2000 lire. Anche la supermemoria era un superpotere ma non mi ero ancora accorto di essere l’uomo ragno e pensavo solo di essere piuttosto intelligente, ecco tutto. Certo mi muovevo con destrezza tra gli scaffali del supermercato e quando volevo riuscivo ad arrivare alle spalle dei clienti senza fare un solo rumore. Sarei stato un ottimo agente della vigilanza del supermercato ma anche un ottimo contabile e un ottimo cassiere. Il supermercato poteva contare su di me. Spesso mi fermavo a riflettere sulle mie caratteristiche fisiche, su queste capacità che dal nulla mi sbucavano e che mi bruciavano sulla pelle in cerca del proprio spazio. Per esempio ogni tanto uscivo nel parcheggio del supermercato e facevo una corsa lunga e folle fino all’uscita. Superavo le macchine che facevano manovra dai parcheggi e scansavo carrelli abbandonati sullo spiazzo come atolli sperduti nell’oceano. Restavo impressionato dalla velocità con la quale raggiungevo l’uscita e con quanta facilità evitavo gli ostacoli che mi si paravano davanti. Alcuni si fermavano a guardare e restavano impressionati dalle mie prestazioni. Poi tutto sudato me ne rientravo nel mio magazzino a imballare prodotti scaduti da destinare alle fondazioni umanitarie del terzo mondo e ad etichettare salami, carta igienica, veleno per topi e lamette. Un pomeriggio caldo di resistenze di frigoriferi, mi addormentai sugli imballi. Le scatole morbide erano un buon posto per dormire e a certe ore del giorno, quando la stanchezza ti risaliva dalle ginocchia fino alla schiena, basta davvero poco a perderti nel sonno. Mi arrivava così dolce che ci scivolavo senza neanche accorgermene e la dimensione onirica stessa si confondeva con la realtà in quella confusione di luci e di ombre. Mentre affondavo rimbambito nella palude dei sogni, qualcosa mi riportò alla luce. Un fastidioso prurito al braccio destro. Andai per grattarmi e vidi un grosso ragno camminare lungo il mio braccio e incastrarsi tra i miei peli. Lo scacciai subito con l’altra mano e quel diavolo con venti zampe andò a pararsi sotto alle scatole. Dalla rabbia cominciai a saltare sulle scatole vuote e quel bastardo con trenta zampe in niente dovette diventare un tutt’uno con il lineolum che stava steso a terra nel magazzino. Restai nervoso tutto il giorno e lavorai con più lena e più zelo del solito. Da solo sistemai qualcosa come ottanta scatolette di tonno in venti minuti, tutte rivolte con l’etichetta verso l’esterno dello scaffale e impilate in maniera perfetta. Sistemai anche i croccantini per i gatti ed alcune confezioni di sapone cha da mesi marcivano nel deposito. Sentivo i bicipiti gonfiarsi e venire fuori le vene e le scatole di croccantini volavano leggere tra le mie braccia. Un vigore eccezionale vibrava nei miei muscoli, tesi come acciaio. Volli allora mettermi alla prova e andai nel reparto animali a sistemare i sacchetti di sabbia per i gatti da dieci chili l’una. Riuscivo a portarne due per volta e con quanta grazia! Ritornai a casa attraversando velocemente il quartiere, così veloce che la gente a stento riusciva a fissami sulla retina mentre io percepivo tutto e la vista si era allungata arrivando a mettere a fuoco anche oggetti a dieci metri e la miopia che da sempre mi perseguitava sembrava affievolirsi e ridursi sensibilmente. Qualcosa in me stava cambiando. La stanchezza mi colse impreparato sul letto e in niente scivolai nuovamente nel settore buio e imperscrutabile del sonno. Feci un sonno convulso e pieno di immagini confuse. Metafore buone si confondevano con presagi cattivi e al risveglio il lenzuolo madido di sudore testimoniava le lotte intestine dei miei neuroni. Mi risvegliai con una consistente erezione che vibrava in mezzo alle cosce e me ne stetti un paio di minuti nel letto ad aspettare che tutto si normalizzasse per circolare in casa. Da dove proveniva quel vigore? Cosa stava succedendo? Presi grattarmi la bollicina che si era formata sul braccio e ad un tratto capii. Il morso del ragno nel retro del supermercato mi aveva profuso energie nuove e adesso mi stavo mutando in un essere sublime! La mia rivincita sul mondo e su tutti quelli che dicevano che ero scemo prendeva il via da quel ragno. E la cosa in fondo non mi stupì poi tanto perché in cuor mio ero certo di essere speciale, e i superpoteri da sempre albergavano in me anche se solo adesso ne prendevo coscienza. Sentivo tutti gli odori della terra e tutti i suoni e riuscivo a capire i pensieri del gatto mettendogli una mano sulla testa. Il prodigio che si stava compiendo era miracoloso.
Ne parlai con uno del reparto manutenzione frigoriferi. Si chiamava Andrea e una volta mi disse che riusciva a parlare con i morti. Non è che ci parlasse propriamente, nel senso di una discussione vera e propria, ma riusciva a stabilire una connessione con loro attraverso delle onde celebrabili. Erano i morti che si mettevano in contatto con lui e lui poteva solo ascoltarli senza riuscire a porre loro delle domande. Aveva comprato un libro che trattava il paranormale per documentarsi sul suo caso, ed aveva scoperto di essere un medium unidirezionale. Secondo il libro lui era una specie di antenna ricevente tra due dimensioni diverse. Quando me lo raccontò, gli credei e quindi vantavo un credito nei suoi confronti. Gli dissi che avevo una cosa da raccontargli e che dovevamo parlarne da soli. Lui intese che si trattava di qualcosa di delicato e restammo tutto il giorno in silenzio finchè non avemmo l’occasione di parlarne da soli. Gli raccontai tutto. Gli dissi che ero l’uomo ragno. Dapprincipio Andrea restò sconcertato, e disse che ero completamente impazzito. Quel bastardo di un visionario che parlava con i morti osava dirmi che ero io il pazzo. Disse che avevo bisogno di uscire e di andare a donne e di smetterla di restarmene da solo con queste fantasie. Gli urlai in faccia che io di donne ne potevo avere quante ne volevo e che mi aveva deluso perché pensavo che lui fosse una persone più sensibile degli altri e visto che c’eravamo quella cosa dei morti era proprio una stronzata e forse era lui che aveva bisogno di andare a donne. Lavorai rabbioso come un cane tutto il giorno e spostai tonnellate di sacchi di sabbia per i gatti solo per il gusto di spostarle. I clienti del supermercato percepirono il mio livore e si tennero alla larga, nel loro ideale raggio di distanza minima dal pericolo. Se solo avessi potuto avrei trasformato tutto in un bozzolo gigantesco di ragnatela. Tuttavia ero sicuro che la mia volontà sarebbe bastata per farlo. Andrea mi prese per il culo tutto il giorno e ogni volta che ci incrociavamo nel deposito, faceva finta di arrampicarsi sulle pareti, oppure si metteva a terra a camminare come i ragni. Fu da quel giorno che non parlai più con nessuno. Con nessuno. La gente pensava che io fossi impazzito, e la mia afonia li rendeva pazzi, ma io custodivo un segreto. Lasciai il lavoro e mi rintanai nella mia camera. Progettai grandi piani per salvare cose e persone e per ristabilire l’ordine nella città. Tutto era semplice ai miei occhi e la scintilla della follia oramai mi aveva reso cieco, allontanato da ogni barlume di intelligenza e di senso della realtà. Andai avanti in queste condizioni per altri tre mesi. Ero dimagrito e le ossa sbucavano spigolose da sotto alla pelle, i muscoli che credevo d’acciaio si erano afflosciati e se ne stavano rinsecchiti, attaccati alle ossa con il cotone delle mie visioni. La notte facevo solo incubi ed avevo il terrore del buio. Provavo rabbia verso tutti, e cercavo una vendetta per i delitti che non avevo ancora subito e per le ingiustizie che ancora non si erano abbattute su di me. Cominciai in quel periodo a guardare la televisione, soprattutto i telefilm. Li preferivo ai film perchè avevo il tempo di conoscere il personaggio e di familiarizzare. Così mentre seguivo con gli occhi i ghirigori disegnati dalle crepe nel parato, guardavo la televisione per tutto il giorno. Alle undici del mattino su rai tre davano la signora in giallo. "Murder she wrote" era il titolo della serie, ma a Napoli si chiamava la signora in giallo. La protagonista era Jessica Fletcher una signora sui sessanta che in ogni puntata si trovava a che fare con un assassinio. Spesso quando il cadavere non faceva parte della sua cerchia di conoscenze, veniva chiamata in causa da un suo amico poliziotto che le chiedeva di aiutarlo a risolvere il caso. Jessica Fletcher era vecchia e piena di rughe, però aveva sangue freddo e coraggio. Lei non aveva bisogno di alcun superpotere per risolvere i misteri, altro che uomo ragno, si serviva soltanto della sua potente mente e di una capacità di elaborare la dinamica dell'omicidio incredibile. Il suo segreto era l'esperienza. Jessica Fletcher, la rugosa e praticamente morta Jessica Fletcher c'aveva le palle e questo era fuori discussione. Non c'era avvocato che uccideva la moglie ricca, commercialista che uccideva la moglie ricca, medico che uccideva la moglie ricca che era capace a sfuggire all'intuito investigativo di Jessica Fletcher. Restai molto impressionato da una puntata dove un parrucchiere omosessuale uccideva il suo amichetto ricco. La trama era davvero complessa e il finale imprevedibile. Cominciai a prendere degli appunti per delle nuove trame da proporre alla produzione del telefilm. In una sola mattinata ne scrissi una intera dove il protagonista era un macellaio e uccideva la moglie ricca. Il titolo della puntata era "filetto al sangue". Avevo un'impostazione più proletaria e mi piaceva di ambientare le puntate in un contesto sociale popolare perchè gli spettatori si rispecchiassero di più. Alla mia maniera davo un'impronta letteraria al telefim. Scrissi infine un capolavoro con dei forti motivi autobiografici, si chiamava "omicidio nel supermercato" dove un operaio addetto al magazzino, dopo ripetute provocazioni da parte di un suo collega psicolabile, l'ammazzava nel parcheggio del supermercato con i sacchi di pietrine per i gatti. Jessica Fletcher beccava l'assassino e sentite le sue spiegazioni non lo denunciava in quanto volutamente provocato dallo psicolabile. Autocensurai alcune scene di violenza esplicita dove il protagonista sbriciolava il cervello dello psicolabile riducendolo alla consistenza brodosa. Rilegai tutto e l'imbustai in una grossa busta gialla. Spedii la busta gialla agli studi di Rai Tre di Napoli, dove tutti i giorni Jessica Fletcher girava la puntata e attesi. Fu da quel periodo in poi che decisi che sarei diventato un investigatore privato.

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