sabato 8 novembre 2008

Numero di Novembre


Questo è forse tra i migliori numeri del nostro blog. Racconti potenti, taglienti e allo steso tempo con un velo d''ironia. La redazione di ad est dell'equatore porge i più sinceri complimenti agli autori e rivolge un grazie a tutti coloro che hanno tempestato la nostra posta elettronica di racconti. Continuate a farlo, questo del blog sta diventando uno dei mezzi più importanti per scoprire talenti e dare l'opportunità a tutti di lasciarli scoprire. Grazie mille. Continuate a scrivere, a commentare, a votare e soprattutto a leggere.
Saluti dall'est dell'equatore.

IL TORCHIO di Massimiliano Colucci


Ci vuole forza, le spiegai. Come in molte cose della vita. S’impara a camminare e a non cadere quando le gambe sono forti abbastanza. S’impara a masticare e a mandare giù bocconi sempre più grossi e amari. S’impara anche a sedersi e rimanere immobili quando non se ne ha assolutamente voglia. Pure questa è forza.
La vita è un’immensa vendemmia. Aspetti per mesi i frutti; in un solo giorno li recidi gonfi e dolciastri sotto i raggi caldi che fanno scintillare le foglie sfrangiate e il dorso lucido di piccoli ragni verdi che scappano disturbati. Poi la macina, i tini in cui il mosto fermenta bollendo e ti spezza la testa al primo respiro, se non sei abituato – eppure sai che non proverai mai piacere più grande di quell’ebbrezza fortigna che si mescola al sudore e al tepore pigro dell’autunno alla porte, mentre ti penetra torpido nella pelle. Infine il torchio, il terribile e maestoso torchio che tanto m’impressionava da bambino, da cui spremere un succo scuro e amaro impregnato di vinaccioli e raspi, e del sapore di un’esistenza segreta e nascosta che non riesci mai a comprendere fino in fondo.
Il torchio è la parola decisiva: più del mosto torbido e ambiguo e delle risate dei bambini che s’inseguono sotto le cupole delle vigne. La sbarra di ferro che ti scorre tra le dita, le reni che ad ogni colpo gemono, le vesciche che cominciano a formarsi, il secco e stereotipato “ta–tlak” che riempie l’aria assieme al fremito spumoso che filtra denso attraverso le assi di legno, cola gorgogliando sul piatto, scivola lungo il beccuccio metallico fin nella vasca. L’ultimo vino... E’ sempre stato il mio preferito. Forse perché concludeva un ciclo, e dava il meglio di sé, senza segni di stanchezza. Forse perché a produrlo tu eri costretto a dare il meglio di te stesso. Dopo di quello non restava altro che gettare le torte di bucce compresse al razzolare delle galline, e attendere novembre quando i tralci recisi lacrimano linfa, nei pomeriggi grigi e silenziosi passati ad annusare la nebbia.
Ci vuole forza, le ripetei. Volle provare a tutti i costi. La guardai sorridendo mentre diventava paonazza nel tirare a sé la sbarra cilindrica scrostata da molte mani. La aiutai. Creare assieme quel suono che tanto bene ricordavo e amavo fu una sorta di incantesimo rigenerato. Solo non c’erano più mio nonno, la sua terra, i miei genitori, gli zii e i cugini, non c’era più nessuno, a parte lei; persino le vigne erano state tagliate e lasciate morire perché nessuno aveva più tempo per occuparsene. E’ un peccato che non sia arrivata prima, nella mia vita. Si sarebbe divertita: mi sarebbe piaciuto farla appartenere a quel mondo della mia giovinezza con la sua magia di fine estate. Avrebbe forse capito molto di me…
Tornati a casa, stappai una delle bottiglie che ci aveva regalato il nostro amico. Aveva un vigneto sufficiente a coprire generosamente le necessità di un anno. La bottiglia era dell’anno precedente. Vino di torchio, l’ultimo. E’ uno dei pochi che, come me, pur senza capirne il motivo, l’ha sempre imbottigliato a parte.
Versai il vino in un calice. Lo guardai. Era caldo, scuro e rubescente come il sangue. Riluceva cristallino, simile ad una pietra antica. Lo respirai. L’aroma carico non stordiva, ma penetrava a fondo, facendosi strada lentamente, senza fretta, e s’insediava con tutta la sua forza intatta da qualche parte dell’anima e della memoria.
Lei si muoveva nella stanza. C’era qualcosa che mi si agitava nella testa, forse un ricordo, mille pensieri, una sensazione imprecisata ma sufficientemente importante. Sollevai il calice, e la osservai attraverso quel filtro ferrigno. Osservai la sua figura morbida e inebriante che si muoveva gonfia di vita e di fisicità. Sentii immediatamente crescere in me il desiderio. Portai il calice alla bocca, e senza staccare gli occhi da lei bevvi lentamente, assaporando ogni stilla come se fosse l’ultima, ascoltandola scendere nella gola, giù fino al ventre, e penetrare nel sangue con un’onda tiepida e calda che si dilatava sulla pelle.
Mi alzai. Andai da lei. La presi e la strinsi, avido. La baciai. Ci vuole forza nella vita, e la vita che le scorreva nelle vene e nella carne era mia, e la volevo. La volevo come il torchio brama il vino dall’ultima uva rimasta. Forse era questo il disperato segreto di quella macchina: un immenso, vorace desiderio di vita e di ubriachezza, per non sentire l’assurdità della solitudine e dell’esistenza.
La baciai. Ricambiò il mio bacio. Le sue labbra si schiusero sulle mie. Si staccò di colpo quando avvertì il dolore che le avevo provocato, mordendola. Inavvertitamente, forse. Forse, involontariamente, la morsi per farle male… Spostai la sua mano. Una goccia di sangue le scivolò sulla piega del labbro. Mi scusai. Mi avvicinai e la baciai delicatamente, proprio sulla ferita. Era una goccia della sua vita, della sua intimità, a scivolarmi dentro. Scura, calda, densa e rubescente come un ultimo vino. Lo stesso sapore.

SOCIOPATICO di Roberto Saporito


Io non sopporto più la gente, non sopporto più nessuno, gli esseri umani mi danno una sorta di orticaria esistenziale, un prurito all’interno del sangue. E’ anche possibile che io sia diventato sociopatico, oppure no, non sono io che sono diventato sociopatico ma loro, la gente, tutti quanti loro sono diventati sociopatici nei mie confronti, è possibile no!
Cammino rapido, e i miei passi risuonano sull’acciottolato della strada deserta, le mie suole di cuoio delle scarpe a punta di pelle di un qualche rettile abitante di qualche deserto rendono la mia camminata ancora più aggressiva.
I diodi luminosi dell’orologio della farmacia segnano le ore ventuno e trentasette: sono in ritardo di trentasette minuti sull’orario della riunione di redazione alla casa editrice. E io non sono mai in ritardo.
Cammino spedito nella luce arancione dei lampioni del centro storico e le mie scarpe aggressive fanno toc toc toc. Incrocio una ragazza che cammina in modo, se possibile, ancora più aggressivo di me, con lo sguardo che viaggia basso, per capirci all’altezza delle punte dei suoi stivali dal tacco altissimo a stiletto tic tic tic, contro il mio toc toc toc. Mi supera in scioltezza lasciandosi dietro un buon profumo aromatico, qualcosa con agrumi e miele e altro che non riconosco, ma invitante e sensuale.
Mi fermo, guardo la ragazza da dietro, alta e ondeggiante, e dalla tasca della mia giacca marrone scuro estraggo un pacchetto di Gitanes. Apro il pacchetto, estraggo una sigaretta, me la infilo tra le labbra un po’ screpolate, prendo l’accendino, un vecchio Ronson, dall’altra tasca e mi accendo la sigaretta. Rimetto in tasca accendino e pacchetto. Riparto.
Allora, sono sociopatico io o lo sono loro non ha importanza, alla riunione di redazione io non ci vado per niente. Queste riunioni a cinque per decidere quali libri pubblicare e quali no non le sopporto più: se fosse per me io non pubblicherei più niente, non ricordo quand’è stata l’ultima volta che ho letto un manoscritto che valesse qualcosa: la mia sociopatia, se possibile, si sta estendendo anche ai libri, o a quelli che potrebbero diventare tali, e ai loro autori. E gli altri editor hanno gusti discutibili, no, non discutibili, diciamola tutta, hanno gusti orrendi, non capiscono un emerito cazzo di narrativa, come Valeria che l’altra settimana mi passa un manoscritto enorme (qualcosa come settecento pagine) e mi dice:
“Questo è il nuovo Piperno”,
“Perché, uno non basta?” ho domandato io.
“Dai, leggilo, e poi mi dirai” ha detto Valeria.
Be’, l’ho letto, tutto, e le pagine erano settecentottantatre, ed erano settecentottantatre pagine inutili, un brutto buco in una qualche foresta del cazzo (che poi a me, appunto, delle foreste non me ne frega neanche niente, è solo per dire quello che dicono tutti i miei colleghi editor ecologisti pacifisti bla bla bla).
E questa sera si deve appunto decidere se pubblicare o meno il buco nella foresta, e dato che le decisioni le prendiamo a maggioranza, e agli altri quattro il libro è piaciuto, io alla riunione non ci vado: che ci vado a fare. E poi l’autore è amico o amico di un amico di Giorgio, uno degli editor, uno di quelli che può cambiare il destino di un altro scrittore italiano, trasformando un qualche giudice-impiegato-benzinaio-panettiere-commercialista-chirurgo-architetto-idraulico in scrittore.
Cammino sempre più spedito toc toc toc sbuffando fumo dal naso come un’antica locomotiva.
Gli altri quattro editor sono tutti scrittori (editi, chi più chi meno), io no, gli editor non dovrebbero essere scrittori, è come se i preti fossero anche peccatori (lo so, ci sono, ma non dovrebbero esserci, punto), ognuno dovrebbe avere il suo ruolo, o fai una cosa o ne fai un’altra, è un po’ come per i critici letterari: i critici letterari non dovrebbero essere anche scrittori, dovrebbe essere vietato fare il critico allo scrittore, dovrebbe essere tipo scegli, o di qua o di là, non il piede in due scarpe, dovrebbero esserci delle leggi, ma delle leggi applicate veramente, con severe sanzioni, punizioni corporali, lavori forzati. Ecco, è così che dovrebbe essere.
Cammino sempre più spedito toc toc toc, sfilo davanti al palazzo dove ha sede la casa editrice che mi da da mangiare. Non mi fermo e toc toc toc mi allontano camminando come se avessi davvero una meta precisa, come se dovessi davvero arrivare da qualche parte, come se davvero ci fosse qualcuno che non vede l’ora di vedermi. Ma io non voglio vedere più nessuno nessuno nessuno, senza distinguo.
Toc toc toc.

NOZZE di Cristina Musciacco


“Ragazzi mi sono innamorato. Voglio sposarmi. Si chiama John Bo”. Quando zio Alfredo, ubriaco pronunciò la sera della vigilia di Natale queste parole, la madre ebbe un mancamento, il padre gli rovesciò sul viso il costosissimo brunello che aveva nel bicchiere, zio Salvatore rimase a guardarlo con la bocca aperta piena di cibo, cugina Maria e cugina Lucia, prossime ai voti, si toccarono il crocifisso e iniziarono pregare, il piccolo Carletto gli gridò contro una parolaccia. Solo zia Betty rideva e batteva le mani come sempre usa fare quando accade in famiglia qualcosa di inaspettato.
Quella sera la grande tenuta non assistette allo scambio dei regali, né ai brindisi di festeggiamento. La serata passò tra i litigi del nonno e la nonna che si accusavano a vicende della mal riuscita del loro unico figliolo. Gli zii gli si avvicinavano incuriositi chiedendogli se avrebbe iniziato a vestirsi da donna. Le cugine premevano perché si chiamasse un prete.
La settimana successiva alla rivelazione, zio Alfredo invitò John Bo e la sua famiglia alla tenuta, per dare inizio ai preparativi delle nozze. La sua famiglia si limitava in realtà ad unico fratello.
Il fratello di Bo era l’uomo più bello del mondo. Viaggiatore solitario non c’era paese, città villaggio, foresta, monte, valle, isola, fiume, lago, landa, vetta, pianura, deserto che i suoi occhi non avessero guardato. Ogni comunità che incontrava sul cammino lo accoglieva benevolmente e si disperava quando ripartiva. La sua bellezza gli permetteva di entrare ovunque. Aveva visitato le stanze nascoste di antichi palazzi reali, era stato messo al corrente da oracoli inauditi sui segreti dell’universo,aveva partecipato ai riti sacri di remote religioni misteriche. Ogni sera raccontava una storia diverse: di quando era stato ospite di una popolazione nomade di un deserto asiatico, la quale praticava un comunismo così totale da ignorare totalmente il significato dell’aggettivo possessivo mio; o di quando aveva conosciuto la gente di un’isola del pacifico in cui tutti gli uomini erano schiavi e le donne regine; o di quando aveva abitato presso un villaggio di una foresta tropicale in cui non c’erano leggi, né crimini, tranne uno per il quale si veniva puniti con la morte: compiere 50 anni. Dopo una settimana che il fratello di Bo era con noi alla tenute, tutte le cugine, comprese cugina Maria e cugina Lucia erano incinte. Tra i preparativi per il matrimonio e i preparativi per le nuove nascite, la famiglia era come impazzita. Vecchie abitudini furono abbandonate per lasciare il posto ad alte. Chi fino a quel momento aveva preso il caffè amaro, iniziò a prenderlo zuccherato, chi usava addormentarsi a destra cominciò a dormire a sinistra, chi era stato pacato si trasformò in agitato, chi aveva vissuto da miscredente diventò religioso, chi era sfacciato cambiò in pudico, chi era depresso divenne gaio, chi era loquace si ammutolì , chi era silenzioso cominciò a cantare. Solo zia Betty sembrava quella di sempre anche se ininterrottamente rideva e batteva le mani.
Il giorno fissato per le nozze fu anche il giorno in cui nacquero i bambini. E la famiglia non sapeva come dividersi fra la chiesa e l’ospedale.
Al momento del parto i medici inorridirono: i bambini ridevano.

MIO NIPOTE di Danilo Potenza


Il buio è per molti l’unica possibilità, e lì, anche a costo d’inventarla, devi trovare la luce. Ho sempre creduto che nell’animo risieda la vera forza degli uomini, e l’animo prescinde dall’età. Domenica mattina, come ogni fine settimana accompagno mio nipote al parco di fronte casa. Vorrei portarlo in posti più belli, ma sono vecchio e stanco. In fin dei conti, per lui non conta molto la bellezza. Mio nipote Marco è cieco dalla nascita, per lui bello è ciò che gli provoca delle emozioni. Oggi ha undici anni, e vederlo lì, che vorrebbe infilare il cappotto da solo ma non riesce, fa male. Prende il suo bastone posato accanto alla porta, saluta tutti sorridendo. A volte mi domando se lui abbia coscienza del fatto che sorride sempre. Io da anni ho smesso di farlo. Mi vien da pensare che solo a pochi è concesso, sorridere intendo; ai bimbi, agli innamorati prima dell’inevitabile dolore, agli stolti.
Scendiamo in strada, attraversiamo la carreggiata e imbocchiamo il vialetto d’ingresso. Il parco è piccolino, ideale per sguinzagliare figli e cani. Alle nostre spalle, tre grossi pioppi ci separano dalla strada, mentre due pruni fanno ombra a una panchina costeggiata dal vialetto che attraversa tutto il parco. Una siepe svestita recinta la zona. Veniamo qui perché è comodo, sicuro. Vogliamo solo prendere un po’ di sole, e quello è uguale dappertutto.
Stamattina Marco è più allegro del solito. Attorno, voci di bambini attraggono la sua attenzione, ma lui sa bene che non potrà andrà da loro, almeno da solo. È incredibile come sia coscienzioso. Allora mi tira con tutte le forze racchiuse nell’esile braccio destro, mentre con la mano sinistra fa ondeggiare il bastone davanti a sé.
- Dai, andiamo nonno, è già tardi.
- Vai piano, lo sai che non posso correre.
Dovrei essere solo io a non poter correre. Ci fermiamo sotto due tigli al centro di un’aiuola. Marco posa il suo bastone a un tronco e scappa via inseguendo le voci degli alti bambini. Ha il sorriso di chi rivede una persona cara dopo anni, la gioia sincera della fine di un’attesa. Il sole compie i suoi sforzi per inondargli gli occhi, ma le palpebre di Marco restano serrate. Il buio resta buio se luce non puoi vedere, ma il buio diventa luce se luce sai vedere. Marco ce l’ha, Marco ha quella forza capace di cambiare il mondo che lo circonda. Spinge le sue gambe una davanti all’altra rincorrendo le altre voci, a bocca aperta per respirare più velocemente e arrivare subito, prima che tutto scompaia e finisca. Io resto a guardarlo poggiandomi a un albero, la schiena mi fa male, sono stanco. Penso a mio nipote, al fatto che probabilmente va incontro a un’altra delusione. Marco non può vedere quando la sua corsa arriva a destinazione, ma può sentirlo, e non più dalle voci dei bambini, ma dal loro silenzio, spontanea conseguenza nel vedere una persona diversa. I bambini si ammutoliscono alla vista di Marco, che si fa avanti a braccia tese cercando qualcuno, sorridendo, come gli innamorati. Non so se potrà mai conoscere l’amore per una donna, non so se ci sarà mai una donna disposta ad amarlo. Per stargli accanto bisogna accettare una serie di circostanze, sacrifici, compromessi con se stessi.
Marco si avvicina a un bambino, gli tocca il viso, gli chiede come si chiama ma l’altro non risponde, gli chiede che stanno facendo, ma tutti tacciono. Di colpo il bambino fa qualche passo indietro e si allontana di corsa seguito dagli altri. Marco ascolta il rumore dei passi che si allontanano e delle voci che riprendono i loro giochi d’allegria lontano da lui, dal diverso. Marco tende ancora le braccia in avanti, ma non trova nessuno. L’amore è troppe volte seguito dalla disperazione.
- Nonno.
Ha un mare di lacrime chiuse nella gola.
- Sono qui.
Gli vado incontro, lui corre verso di me, inciampa a un gradino, cade, piange. Si è graffiato le mani.
- Alzati non è niente, ti sei solo un po’ sporcato.
Marco si alza da solo senza dire una parola, si soffia sulle mani, mi abbraccia, singhiozza.
- Perché nessun vuol giocare con me.
- Perché gli uomini hanno paura di chi è diverso.
- Non è giusto però, tutti sono diversi da me ma io mica ho paura di loro.
Che dire?
- Perché tu sei speciale. Vieni torniamo a casa.
Ci incamminiamo verso i tigli per recuperare le nostre cose, ma di colpo Marco si ferma e si siede a terra. Dice di voler giocare almeno un po’ prima di andare, dice che noi possiamo divertirci anche senza gli altri bambini. Non so che fare, resto in silenzio. Mi rendo conto che aspetta una mia risposta, ma resto muto. Lui abbassa la testa, singhiozza, si alza in piedi e si incammina da solo.
- Marco aspettami, non correre.
Non mi ascolta e capisco che ora il mio compito è far divertire mio nipote, io, che ho settant’otto anni e che non so più ridere.
- Va bene, inventiamoci un gioco.
Marco si gira di scatto, sorride, corre verso di me e mi afferra per una manica. Dice di voler raccogliere delle pietre da buttare nella fontana. Lo assecondo e insieme arriviamo sotto i tigli. Mi spiega il senso del gioco. Credo di non averlo capito molto bene, visto che vorrebbe riempire la fontana di pietre in modo da far uscire tutta l’acqua. Mentre mi parla mi tocca il viso, e sento le sue morbide mani sulla mia pelle rinsecchita, sento la primavera addosso dopo l’inverno, rinascere i germogli della speranza. Marco ha una forza che non ho visto in nessun altro. Mi chiede di portarlo verso il viottolo di ghiaia. Andiamo, mi metto dietro le sue spalle e lo aiuto ad abbassarsi mettendogli le mani sotto le braccia per indirizzare le sue dita verso le pietre più grosse. Stringo i denti per le tremende fitte alla schiena, ma Marco ride, e a me non serve più nulla. Andiamo davanti alla fontana, lanciamo le pietre dentro e ridiamo per qualche schizzo che ci bagna i cappotti.
Spero che almeno questo amore non conosca mai la disperazione della fine.

SCHERZI TELEFONICI - SNUFFING di Daniele Scarpati


Per descrivere degnamente il tipo di oscurità che avvolge Snuff, non basta rievocare la notte. Non basta spegnere la luce. Snuff non esisterebbe se non ci fosse il colore nero. Un nero che sembra fatto apposta per rendere il bianco della sua pelle ancora più innaturale, ancora più lucente. Una lucentezza fredda, cruda. Come quella di un neon.
Premendo il tasto POWER del suo computer Snuff dice alla signora legata sulla sedia: «Tra un po’ telefoniamo a tuo figlio e vediamo se riusciamo a farci quattro risate insieme con lui».Poi aggiunge: «Vediamo se è in grado di far divertire il suo pubblico anche in questa circostanza».Il figlio della signora è un diciottenne di provincia. Sta diventando famoso postando i suoi video su Youtube. I suoi video appartengono alla categoria “comici”. Racconta barzellette, esegue brevi monologhi, recita poesie, canta canzoni accompagnandosi con la chitarra. Ma la sua specialità, il suo marchio di fabbrica, sono gli scherzi telefonici.Questo lo so perché me lo ha detto Snuff. Sarà anche famoso questo ragazzino ma io non l’avevo mai visto prima che Snuff mi mostrasse qualche suo video. Del resto io non ho tempo per queste cose. Essere il migliore amico di Snuff è un lavoro a tempo pieno.La mamma del ragazzo, legata e imbavagliata su questa sedia, piange e si dispera. Ha qualche livido sulla faccia per via dei pestoni che Snuff le ha dato per farla stare buona.È disperata. Anche se in pratica ancora non ha visto niente. I morti non sono solo quelli bianchi, freddi e rigidi. Un morto può anche dimenarsi e disperarsi e provare paura.Un morto può anche essere come questa signora qui. La madre di Comicogenio89.Comicogenio89 è il nickname con cui questo ragazzo firma i suoi video. Il suo vero nome è Roberto.Snuff lancia il Messenger. È notte fonda.«Sapevo di trovarlo in linea a quest’ora – dice Snuff con la nota più crudele che la sua voce è capace di emettere – lo sapevi che si ammazza di seghe navigando in siti porno e video-chat erotiche?».La signora piange. Forse inizia già a capire. Il bavaglio che ha sulla bocca si macchia delle goccioline umide e calde che le scorrono lungo le guance. Le macchioline hanno il colore scuro del suo mascara. Con gli occhi gialli come quelli di una vipera e la pelle al neon che diventa sempre più bianca, Snuff dice: «Per la sua brama di conoscere gente e di farsi conoscere quel fesso di tuo figlio ha reso visibile il suo contatto MSN nel suo profilo Facebook.». Dice: «Quando l’ho aggiunto ai miei contatti non si è minimamente posto il problema che lo stesse aggiungendo uno sconosciuto. Forse non ha fatto nemmeno caso al piccolo particolare che l’indirizzo che lo stava invitando fosse video.tortureuccisioni@hotmail.com. Ah, dimenticavo! Tanto per la cronaca sul My Space di tuo figlio, perché lui ha sia il Facebook che il My Space, nome e cognome sono in bella mostra. E anche l’indirizzo. Se fossi uno di quei maniaci sfigati e volgari mi sarei intrufolato in casa vostra e avrei fatto un macello. Vi avrei torturati uno per uno con un uncino. Avrei mangiato il vostro gatto vivo, sotto i vostri occhi.».Quest’ultima frase mi ricorda il nostro accordo. L’accordo che ho fatto con Snuff quando l’ho conosciuto. Anni fa. Ma non ci devo pensare. Ora come ora non sono pronto per una cosa simile. Il mio percorso insieme all’amico Snuff non è ancora compiuto.«Fortunatamente io non sono così scontato nelle mie cose, e quindi eccoci qua!», dice Snuff concludendo la sua arringa.Con le sue mani bianco-neon, Snuff digita velocemente un nickname diverso per il suo Messenger. Il suo nick ora è Snuffina. E nel vederlo scritto nel suo avatar, non so perché ma mi vengono i brividi.Snuff spiega che l’unico modo per farsi prendere in considerazione da Roberto è avere un nickname da ragazza. Dice che Snuffina, nonostante sia palesemente patetico, basterà a trarlo in inganno. Dice che Roberto è un idiota. Il suo modo di spiegare passo dopo passo ogni piega presa dai suoi ragionamenti lo rende affascinante. La sua lucida follia mi spaventa più della sua cassetta degli attrezzi. La borsa dove conserva i ferri del mestiere.«CIAO, MI CHIAMO SARA – digita Snuff nella finestra di dialogo – TI VA DI GIOCARE CAM TO CAM?».Nemmeno finisce di scriverlo che Roberto gli invia una video chiamata. Snuff accetta e nei pochi secondi che impiega il computer a caricare il collegamento, trascina bruscamente la sedia della madre di Roberto fin davanti al monitor, mettendola bene davanti alla webcam.Quando le due webcam si collegano, lo scenario, visto da fuori, è il seguente: Roberto indossa solo i boxer e s’intravede già un principio di erezione. Snuff è in piedi, dietro la signora che è ancora imbavagliata. Con una mano le tira i capelli dietro la nuca e con l’altra le accarezza il viso congestionato dalle lacrime e dal terrore.Roberto avvicina la faccia al monitor. Impiega tre, forse quattro secondi per mettere a fuoco l’identità di quella donna imbavagliata.Dal primissimo piano del suo volto, riesco a leggere le sue labbra.Leggo chiaramente che pronuncia la parola: «MAMMA!!!».Lo ripete molte volte, e intanto copre con le mani il suo cazzo in erezione.Immagino che dall’altra parte il povero Roberto veda solo il viso segnato di sua madre, in primo piano, e una sagoma scura dalle mani pallide che incombe alle sue spalle.Per un gusto perverso Snuff decide che per parlargli vuole usare il telefono invece che un semplicissimo microfono. Si allontana dalla sua vittima e prende il cordless. Digita a memoria il numero di casa di Comicogenio89. Dall’altro lato della webcam il ragazzo sembra paralizzato dal terrore e così lascia squillare e non risponde.Snuff stacca la chiamata e si dirige al computer. Eludendo il raggio d’azione della cam e avvicinando a sé la tastiera senza fili, scrive nella finestra di dialogo che non ama la gente che pur stando in casa non risponde alle telefonate. Gli dice che ora richiamerà di nuovo. Scrive a Roberto che se non risponderà infilerà nella vagina di sua madre un roditore affamato. Gli scrive che per assicurarsi che non fuoriesca suturerà la fessura della vagina a crudo, e lascerà il topo lì dentro a fare danni finché sua madre non morirà dissanguata. Fra dolori atroci.Il tutto, naturalmente, sarà ripreso dalle telecamere e diventerà uno snuff-movie. Verrà venduto online.Passa circa un minuto in cui Roberto, in primo piano, legge e piange. Vedere un comico piangere è uno degli spettacoli più strazianti a cui si possa assistere.Snuff, per un po’, lo lascia lì a cuocere nel suo brodo. Non richiama subito. Vuole assicurarsi che il messaggio sia chiaro. Vuole essere sicuro che l’orrore pervada interamente Roberto.Quando finalmente telefona di nuovo, il ragazzo risponde al secondo squillo. Snuff mette il vivavoce e poggia il telefono sul ripiano sudicio che utilizza di solito come tavolo delle sevizie.«Mamma!!! – grida Roberto appena inizia la conversazione – ma non dovevi andare in pellegrinaggio a Lourdes?».La madre ha il bavaglio. Se potesse rispondere a suo figlio, gli spiegherebbe che è stata rapita alla fermata degli autobus. Mentre aspettava la navetta che porta all’aeroporto.«Tua madre non può rispondere – dice Snuff come se pronunciasse una sentenza – devi parlare con me».«E tu chi cazzo sei? Lascia stare mia madre pezzo dimmerda!».«Mancandomi di rispetto non l’aiuterai, e non le salverai la vita. Ad ogni modo tutti mi chiamano Snuff. Immagino che il perché ti sia ormai chiaro».«Pazzo-maniaco-dimmerda!!!».Un moto d’ira e Snuff cambia colore. Per un istante il chiarore inumano della sua faccia viene interrotto da un lampo rosso. Un lampo di rabbia. Di odio.Con una calma glaciale e un sorriso crudele Snuff si alza in piedi. Apre il borsone in cui tiene gli attrezzi. Ne estrae un rasoio elettrico senza fili e con l’alloggiamento per le batterie completamente devastato. Noto che al di sopra delle lame rotanti Snuff ha saldato due sostegni d’acciaio lunghi, paralleli. Sopra questi sostegni, perpendicolarmente, è saldata una lama di rasoio a mano, come quelli dei barbieri. Lo impugna e si piazza in piedi alle spalle della signora. Roberto continua a non vedere altro che il viso terrorizzato e martoriato di sua madre e le mani di luce bianca di Snuff che le armeggiano attorno. Snuff le afferra la fronte e la stringe bloccandole la nuca contro il suo ventre. Poggia il rasoio sul lembo di carne che c’è fra l’inizio del sopracciglio e la base del setto nasale. La lunghezza della lama, in verticale, copre per intero lo spazio che va dal sopracciglio allo zigomo.La signora mugola nel bavaglio e sbatte le palpebre due, tre, quattro volte. Velocemente.Roberto, sempre in mutande, e con l’erezione che ormai è solo un ricordo lontano, si deforma in webcam mentre dal telefono in vivavoce giunge il suo urlo disperato: «Noooooo!!!!».Snuff atteggia la bocca in un ghigno maligno e traccia col rasoio una mezzaluna di sangue che deturpa la zona intorno all’occhio della signora. Il sopracciglio e la pelle sottostante, la carne dello zigomo e una discreta porzione di palpebra vengono tagliati via. Probabilmente anche l’occhio ha subito dei danni.L’urlo sordo della madre di Comicogenio89 è di quelli che senti solo negli incubi.Roberto piange e si dispera.Snuff sembra soddisfatto. Gettando sul lurido ripiano il suo rasoio modificato e sporco di sangue dice: «Spero che ora sarai più docile e asseconderai i miei desideri.».«Farò ciò che vuoi – singhiozza Roberto – ma non fare altro male a mia madre.».«Non le farò più niente se tu farai ciò che ti dico», risponde Snuff mentendo.«Cosa vuoi che faccia?», chiede Roberto fra le lacrime.E Snuff gli spiega che ora attiverà un programma che permette di registrare le immagini che riceve la webcam. Gli spiega che vuole riprenderlo mentre fa uno dei suoi proverbiali scherzi telefonici.Gli dice di impegnarsi perché se riuscirà a farlo ridere lui lascerà libera sua madre e non le farà del male. Roberto ignora che Snuff non sa ridere. Snuff non manifesta mai né giubilo né serenità.Snuff vive e gode solo del male che riesce a infliggere alla gente.Specie se è gente con la smania di diventare famosa. Di apparire.«E a chi dovrei farlo questo scherzo?», chiede Roberto, e la sua voce è solo lacrime.E Snuff avvicina il telefono, posizionandolo di fronte alla madre di Roberto. Togliendole il bavaglio dice: «A lei, a tua madre.». E aggiunge: «Mi sembra una donna intelligente e piena di senso dell’umorismo. La vittima ideale per un tuo scherzo. Avanti, fatemi ridere! E siate convincenti!».Snuff si avvicina alla sua borsa. Fruga cercando qualcosa, qualche altro attrezzo di tortura.Io intanto mi siedo perché prevedo che la cosa andrà un po’ per le lunghe.

Avviso

I commenti di questo Blog sono moderati dall'amministratore. Ciò significa che contenuti offensivi o volgari verranno immediatamente eliminati. Siete quindi pregati di esprimere eventuali critiche in maniera civile e costruttiva.