venerdì 5 settembre 2008

MATURI ALLA VOLTA DELLA CALABRIA di Dario Cioffi



Mese di luglio, ultima decade, ripescare la data precisa sarebbe al momento impresa ardua ma dato che so che pur senza saperla stanotte dormirete lo stesso, sorvolo e vado oltre. Dodici ragazzi, neo diplomati, tutti presso il “magico” liceo scientifico “Francesco Severi” di Salerno (classe quinta Q, doveroso sottolinearlo), decidono di festeggiare con una settimana di vacanza in un villaggio turistico la propria ormai consacrata maturità. A loro (cioè a noi) si aggiungono due graditi “intrusi”: Flavio, all’epoca il fidanzato di Gabriella (una delle tre donne al nostro seguito, nonché persona a me tanto cara), ed Amedeo (per tutti “il Mesale” – che tradotto in italiano vuol dire “tovaglia” da cucina – soprannome affibbiatogli in maniera che definire geniale è riduttivo da un Carabiniere dinanzi lo stadio “Arechi” dopo una perquisizione al suo zaino prima di una partita della Salernitana, che aveva fatto emergere dal fondo della borsa di Amedeo qualcosa come quattro-cinque panini – per 90’ di partita parevano esser abbastanza). Quel viaggio in Calabria, al quale stavo pensando praticamente da due anni, fu davvero un’esperienza esaltante, esilarante, comica, come del resto gran parte di quel quinquennio indimenticabile vissuto al liceo.
Prima della partenza organizziamo le camere, suddividendoci in tre appartamenti. Il primo, per le tre ragazze: la già citata Gabriella, Maria (detta “la legge” per i suoi continui riferimenti giurisprudenziali, inutile dirvi oggi a quale facoltà universitaria sia iscritta…) ed Alessandra, ragazza tranquilla e simpatica che – a posteriori – posso affermare che se avesse vissuto un po’ meno lungi dalla nostra “bolgia” scolastica sarebbe stata apprezzata sicuramente di più. Secondo appartamento, e qui so di non essere in grado – con le poche righe che ho a disposizione – di render sino in fondo giustizia alla complessità dei personaggi. Ci provo. In bungalow insieme ci sono: Virginio (soprannominato “il testone”, mio “collega” rappresentante d’istituto nell’ultimo anno di scuola, di lui al mondo è stata fatta un’unica copia – e meno male! –, non dimenticate il suo nome perché ci ritornerò in seguito); Enzo (a primo acchito sembra “l’eterno scontento”, l’uomo che non ti dà mai ragione ma che se ispirato sa farti morire dalle risate); Giorgio (“il Pompele”, questo il suo cognome, è il fido socio di Enzo, più serafico e tranquillo…tranne quando inizia a praticare il suo sport preferito: bere!); Giovanni (detto “il ragioniere” per l’abbigliamento mai fuori posto, il più timido forse, l’evoluzione della sua personalità è stata nel tempo un crescendo rossiniano, ragazzo generoso e sempre disponibile) ed il già citato Flavio (soprannominato “Abù” per la carnagione scurissima e per il fatto che l’ottima Gabry lo chiamasse a rapporto per portarle le valigie manco Flavio, eccellente ballerino di latino-americano e roba del genere – sono troppo neofita per entrare nel dettaglio –, fosse stato davvero uno schiavo del continente nero). E qui, finalmente, arriviamo alla mia stanza. Come sempre, la più numerosa: una “quintupla con letto aggiunto”, accezione inventata da noi, ovviamente. Il gruppo si compone dei seguenti elementi: Dario (mio omonimo e “fratellone” acquisito, un “gigante buono” di un metro e novanta per centotrenta chili – oggi forse qualcosa in più –, nella vita fa il pallanuotista, all’occorrenza il body-guard ed ha la passione per le Forze Armate, anche se ha deciso che non vi entrerà mai); Antonio (altro fratello per me, compagno di classe sin delle scuole medie oltre che di “cortile” abitando nello stesso palazzo, carattere aspro solo in apparenza, in realtà un pozzo di sorprese e simpatia, per qualche anno l’abbiamo ribattezzato “il cantastorie” per la sua attitudine ad inventare credibilissime storie mai verificatesi, oggi fa il poliziotto); quindi c’è Carmine (“lo zingaro felice”, uno che non vuol dar fastidio né vuole riceverne, vive accontentandosi delle piccole cose, un po’ “vecchio” nei modi di fare ma quando sta con noi è una “pariata”); ancora, c’è Mario (“il Saggese”, dal cognome, altro personaggio di rara riproducibilità, più cordiale e disponibile di un missionario, unica pecca un po’ di cultura generale, specie la geografia); il già citato Mesale (al secolo Amedeo) ed infine il sottoscritto.
Fin qui le stanze, progettate per venire incontro alle esigenze di tutti. In loco, ovviamente, sarebbe poi accaduto di tutto ma come non prevederlo in un viaggio di diciottenni neo-maturi?! Ad esempio, Antonio ed il Mesale si sarebbero presi a schiaffi per qualche biscotto (anticipando in maniera clamorosa quella che sarebbe stata di lì a qualche mese una scena-simbolo dell’edizione 2003 del Grande Fratello), Enzo avrebbe criticato il fatto che Flavio si comprasse le prugne con i soldi della spesa comunitaria, mentre Dario – alle 18,30 di ogni giorno –, in lieve anticipo sulle comuni abitudini degli esseri umani, avrebbe iniziato a dar segni di squilibrio sollecitando anzitempo tutti a lasciare la spiaggia al grido di battaglia: “Teng’ fame…aggià ì a cucinà”. Che meraviglia! Ma non è dei fatti in se stessi, succedutisi durante il nostro soggiorno al villaggio “Capo Piccolo” di Capo Rizzuto, che mi premeva parlare. Piuttosto, voglio raccontarvi il nostro viaggio. E che viaggio! Partenza di venerdì notte, ore 2 dalla stazione di Salerno. In treno, ovviamente. I patentati sono ancora pochi e poi, onestamente, quale papà darebbe mai in mano ad un figlio un’auto che parte per un “luogo del non ritorno?!”. Alla stazione, a curare il tutto, c’è il signor Sergio, il papà di Darione – agente di Polizia Ferroviaria – una persona che sarebbe capace di farti sentire al sicuro anche in piena notte tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli partenopei. Il figlio, fisicamente, ha preso da lui! Credo di aver reso l’idea. Virginio, come da prassi, è il più carico di tutti: ha con sé l’immancabile “bonghetto” – lui è un percussionista straordinario – ed una buona dose di altre “sciartapelle” (si chiamano così dalle nostre parti gli oggetti più “futili”) come da consolidato stile. Ci sentiamo tutti un po’ emozionati, per noi è un po’ come un primo – o forse, chissà, l’ultimo – giorno di scuola. L’incanto, però, si rompe ben presto. Quando saliamo sul treno, infatti, a bordo ci attendono svariate centinaia di persone, gettate in terra nei corridoi come profughi che stanno consumando una lunga agonia. Intendiamo subito, insomma, che quello sarebbe stato davvero un vero proprio “viaggio della speranza”. Ma che viaggio! All’inizio, in vano, cerchiamo un posto negli scompartimenti, camminando lungo un paio di carrozze. Che tragedia! Per fortuna abbiamo di che essere allegri perché a salire in cattedra è da subito il mio amico Mesale, che a noi è noto per un piccolo problemino che l’affligge: non ci vede gran che bene. Così, sbattendo qua e là il suo borsone Arena adattato a valigia, il Mesale finisce per non accorgersi di un uomo – nazionalità incognita ma io gioco tutto sull’indiana – che si era beatamente appisolato, disteso di lungo in corridoio. Amedeo (è sempre il Mesale, non dimenticate) prima lo calpesta un paio di volte, poi, dopo averlo bruscamente destato dal sonno, gli sbatte in pieno volto la valigia. Perché? Perché mentre noi tutti siamo divisi tra il riso e la vergogna guardando in faccia il povero indiano, Amedeo non si è ancora accorto di un bel nulla e prosegue imperterrito nella sua marcia devastante, calpestando un altro “presunto” indiano, per sua fortuna meno assonnato del precedente. Evviva la “par condicio”! In cinque-sei, ci appostiamo nell’unico angolo libero del treno: dinanzi al bagno. Le nostre donne trovano rifugio in uno scompartimento – magie dell’esser “femmine” –; Virginio si accartoccia nel corridoio tenendosi stretto il suo bonghetto manco fosse un figlio appena svezzato; Flavio “si pompa” di musica latina ed Enzo è un continuo lagnarsi contro tutto e tutti. Noi, dinanzi al nostro bagno, cominciamo il nostro sport preferito: “mettere a giro” qualcuno. I “bresuott”, nome con cui Darione definisce i calabresi, sono gli obiettivi preferiti. Intanto il Mesale, appostato proprio dinanzi la porta che dà accesso al bagno, viene tartassato dai passeggeri che lo urtano puntualmente per andar a fare i loro bisogni, prima che la diabolica mente di Antonio partorisca l’idea più brillante della notte: cartellone affisso dinanzi la porta con su scritto “bagno fuori servizio” ed il via vai della gente che turbava la nostra quiete per andare a far la pipì diventa solo un antico ricordo. Geniale. Il viaggio è fisicamente parlando massacrante, le valige sono i nostri cuscini di fortuna ma tra battute continue ed un’infinità di risate dai finestrini anche l’alba si fa d’argento (questo è Baglioni, non Dario Cioffi) e la nostra meta pare sempre più vicina. Il treno, fermata dopo fermata, va man mano sfollandosi. Ci raduniamo facendo un mini-bilancio della nottataccia passata in terra, poi lo speaker annuncia il nostro arrivo. In stazione le navette del villaggio ci prelevano – a costi mi par di ricordare salatissimi – e ci conducono a destinazione. Sono le 8,30 del mattino, per avere in consegna le stanze c’è ancora da attendere tanto, meglio dunque posare i bagagli e tuffarsi subito in piscina: “In modo che, almeno, ci sciacquiamo pure…” – così parlò Darione.

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