lunedì 19 novembre 2007

MORTE PER ACQUA di Massimiliano Colucci


«Talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura.»
E. Montale – I limoni.



Morire in una vasca da bagno… Il pensiero lo colse all’improvviso. Gli venne in mente Marat, pugnalato dalla giovane Corday; Seneca, le cui vene sclerosate non ne volevano sapere di gettare sangue; persino Jim Morrison, soffocato nell’overdose di un hotel di Parigi. Chissà quante altre volte nella storia, senza che alcuno lo sapesse, nelle torbide acque di una vasca si erano consumati gli ultimi istanti di un uomo. Eppure, non vi dev’essere luogo più imbarazzante per passare dal mondo, se si eccettuano un paio di altri arredi sanitari.
Annuì nell’immagine che si rifletteva nello specchio. Non c’erano molte sfumature da aggiungere… Colti dalla morte nella più totale ed oscena nudità. Essere già scomparsi quando occhi estranei si posano su noi. Non poter far nulla per coprirsi, né preservare il vitale, istintivo pudore. Impossibilità di mantenere il pudore… già, questa dev’essere caratteristica peculiare della morte. E’ evidente che non v’è decenza alcuna nell’atto stesso di abbandonare il proprio corpo all’arbitrio o al caso, non essendone più custodi. Non v’è nemmeno traccia di responsabilità o volontà. Allora il pudore andrebbe considerato appena una sciocchezza per i vivi, e non un valore assoluto su cui fondare le scelte morali…
Si allontanò dalla vasca. Ora la vedeva con un’ombra di sospetto, quasi fosse responsabile dell’ambigua e pericolosa serie dei pensieri. Si sistemò la cravatta, allacciò i polsini della camicia, si lavò le mani. Quella di lavarsi le mani era diventata una compulsione, più che una vera e propria necessità. Nient’altro che una convenzione per i vivi, che avrebbe finito per scorticarlo.
Qui c’è ancora una macchia…[1]
Tornò nella stanza da letto, e sollevò la cornetta del telefono. Digitò il numero. Pochi istanti dopo una voce gli rispose.
«Sono io.» annunciò. «E’ per oggi, vero?»
Un basso brusio si sperse a pochi centimetri dal microfono.
«Va bene, sto arrivando.» concluse. «Ci vediamo sul posto.»
Ripose il ricevitore e si girò nella stanza. Lo sguardo gli cadde sul dorso di un libro che teneva su uno scaffale. Scorse il nome di Von Balthasar comporsi con lettere scure. Quell’immagine suscitò uno scintillio nel cuore, rotolandosi nei molteplici significati che portava con sé. Ma non aveva il tempo per contemplarli. Si fermò appena, trafitto dal corteo di archetipi che s’infiammavano nell’inconscio. Kabod, Doxa… Abbiamo visto la sua Gloria[2]. Questo era tutto ciò che poteva accettare, in quel momento. Ripeté ossessivamente le parole a fior di labbra, quasi dal loro suono si distillasse un’affilata penetrazione del mistero. Afferrò la giacca che stava in attesa, distesa sul letto, e lasciò l’appartamento.

L’auto era parcheggiata in strada. Nel momento stesso in cui il motore si accendeva, si riaffacciò nella mente l’immagine della vasca, di una morte che avveniva nell’abbraccio accecante dello smalto bianco, nel silenzio invincibile dell’acqua stagnante. Morte per acqua, pensò… Un rituale di purificazione e rigenerazione; l’atto di passaggio fra un mondo all’altro, dal legame delle spoglie quotidiane alla liberazione dell’eternità. Phlebas il fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il gorgo profondo del mare, e il guadagno e la perdita... Mentre affondava e affiorava attraversò gli stadi…[3]
Che razza di preoccupazioni – si disse, interrompendo bruscamente il flusso di pensiero. I fenici, ottimi naviganti, erano inventori dell’alfabeto…
L’auto partì, e le immagini della strada in movimento, degli alberi e delle chiazze di colore che si susseguivano rapide oltre le fiancate, entrarono in lui, spostando l’impronta della vasca. Respirando, a poco a poco, trovò il modo di recuperare una frazione di lucidità, e di raggruppare alcune idee – poche, ma fondamentali. Era il momento di riflettere: era il momento di capire come sarebbe stato meglio comportarsi, ora che il giorno della scadenza era stato fissato, e non era più ammissibile tirarsi indietro. Quali mosse segnare; in quale punti soccombere, senza mostrarsi arrendevoli; dove portare avanti il compromesso, senza cedere alla tentazione di rinunciare del tutto.
In fondo, non era mai stato bravo con gli scacchi: era un giocatore mediocre, dalle mosse prevedibili; si lasciava mangiare immediatamente i cavalli perché non aveva voglia di usarli o non sapeva muoverli; gestiva male e con pesantezza le torri; puntava tutto sulla velocità di alfieri e regina. Così, se incontrava un altro giocatore mediocre, poteva vincere con una certa facilità, ma se lo sfidante aveva una minima esperienza, cadeva bruscamente nella sua trappola, e i pezzi morivano uno dietro l’altro. Morivano… Con spaventosa rapidità. Le tattiche complesse non lo risparmiavano mai.
La trappola stavolta era piuttosto insignificante. In confronto la battaglia di Teutoburgo o di Isso diventavano autentici capolavori di imprevedibilità… Desidera meno sconfiggere i persiani che essere personalmente lo strumento della vittoria[4]. Personalmente lo strumento…
Alessandro era un genio. Come fare per sentirsi artefici di un corso di eventi? Quale divinità bisogna possedere in corpo? Il laccio che gli si stringeva intorno cominciava a farsi soffocante, e le impronte attorno al collo si affondavano secondo dopo secondo; tuttavia, il problema continuava a non mostrare una reale consistenza. Lo prendeva, lo girava e lo rigirava, e per quanto si sforzasse a renderlo spaventevole e insormontabile ai suoi occhi, era costretto ad ammettere che se l’era creato da sé. Sarebbero bastati un minimo d’iniziativa, di intelligenza, per deviare l’esito degli avvenimenti. Facile, col senno di poi, pretendere di non lasciarsi immischiare; sperare di non aver dato la parola, strappata come una promessa. Lui, almeno, le promesse le manteneva. Non ricordava una sola volta in cui fosse venuto meno alla propria parola. Dalla collina, dove morendo il sole precipita, scroscia il sangue ridente – sotto querce senza parola![5]
Stupido senso dell’onore…
Il semaforo tornò verde, ma non riuscì ad andare lontano: una mandria di automobili occupava la corsia. Avrebbe pagato per avere una pistola e mettersi a sparare in aria colpi di avvertimento, oppure per trovare un lanciamissili nel bagagliaio da adoperare per aprirsi la strada – come in videogiochi di diversi anni fa, in cui il mondo virtuale ti lasciava godere la libertà di una piccola, seppur fasulla, rivincita su qualsiasi dolore. D’un tratto un’utilitaria sbiadita si spostò di lato, ed egli penetrò rapido il passaggio per infilarsi in una via secondaria. Senza uccidere nessuno avrebbe allungato un po’ il tragitto, ma, paradossalmente, sarebbe forse arrivato con un leggero anticipo.

Era la prima volta, si accorse, che percorreva quella via in auto. Magari l’aveva già attraversata a piedi. Ma era irrilevante.
E’ curioso l’effetto che provoca uno scenario non noto, incontrato nella città che si crede familiare: è una parentesi da oltrepassare fra due punti di un tracciato, una frattura dimensionale in cui si viene sbalzati altrove, mentre un senso d’estraneità e mutamento sale lungo la pelle. Il suo corpo era lì, ma la mente era altrove, e la bocca parlava una lingua straniera, gli occhi percepivano colori in frequenze che comunemente non si percepivano, e le forme si prolungavano sulle ombre fondendosi e agitandosi, fino a far sparire i volumi dietro nuove facciate. L’impressione non durò che pochi attimi, il tempo di uscire dalla via per immettersi nella circolazione principale; fu sostituita da serie di nuove immagini, che non si fissarono nella memoria. Ma un’ansia sottile iniziava a stendersi al suo seguito.
Quando arrivò a destinazione, parcheggiò davanti all’edificio. Scese con una lentezza che sapeva di caricatura, e si affrettò ad entrare. Mentre passava sotto l’insegna, e le porte si aprivano, mentre scorgeva le prime linee degli interni e l’espressione annoiata del portiere, qualcosa nell’insieme, forse un suono nell’aria, o una forma imprevista slanciatasi nel campo visivo, lo costrinse a fermarsi. E allora notò con chiarezza l’elemento fuori posto. L’anello che non tiene…[6]
Si ricordò di un episodio verificatosi anni prima, lasciato poi inesplorato nei recessi del cuore. Era notte: pochi minuti mancavano perché l’orologio segnasse l’una. Era appena uscito di casa. Scendendo le scale, d’un tratto s’era bloccato sulla rampa tra il primo e il secondo piano. I muscoli parevano paralizzati, i sensi si tesero in un assoluto ascolto. Quasi una voce appena percettibile l’avesse chiamato; quasi ci si dovesse attendere un’apparizione, un avvenimento qualsiasi.
Si trovò, inaspettatamente, nel buio: buio a tratti squarciato da alabarde di luce che salivano dall’ingresso principale; buio impenetrabile e asettico, inoffensivo e privo di personalità. Eco della tromba delle scale, spirale in cui s’inghiottiva il tempo e il respiro. Sospeso nell’aria con la sola solidità del marmo a separarlo dal vuoto, rimase a lungo immobile prima di prendere una coscienza precisa di quanto stava accadendo. Sollevò lo sguardo, e scorse il lucernario affacciato sul cielo notturno; poco distante l’aggettarsi d’una pianta ornamentale che sporgeva i rami da un angolo del piano superiore; poi giù, rivolgendosi all’ingresso illuminato, lungo le mura graffiate color panna, il portone, la parte superiore tagliata, altre piante che s’incolonnavano come guardie immobili sui primi tredici scalini.
Allora, nel silenzio, avvertì un rintocco costante, simile al pendolo di un enorme cuore, provenire dallo scantinato. I contatori dell’elettricità – pensò. Come se quel suono avesse tagliato un nodo pesante nei meandri della mente, lo raggiunse una chiara intuizione.
In quel momento non avrebbe saputo dire se si trovasse perfettamente, realmente solo. Se il condominio fosse disabitato, o lo circondassero decine di inquilini… se questi fossero addormentati o ancora insonni, come lui trascinati in un’insopprimibile veglia. Si accorse con terribile evidenza di non sapere nulla delle altre persone, della loro vita che lo circondava in una trama invisibile di fili; di non avere certezze sulla loro presenza, su contenuto e identità di quest’ultima, sulle relazioni fra una presenza e l’altra, ma solo impressioni, fantasmi che venivano e soffiavano come il flusso di una marea, senza lasciare segno, senza lasciarsi toccare né amare. All’improvviso la distanza formatasi fra lui e la totalità dell’esistenza divenne incolmabile – scavandosi sulla rampa di freddi scalini, inghiottita dal buio – che non si sentì sicuro nemmeno della vita delle piante, di nessuna vita, tantomeno della propria… Sentiva solo il peso di un’inesprimibile vuoto.
Ora quella medesima epifania si ripeteva. Per un istante, attraversando la soglia, scoprì di non aver nulla a che spartire col resto del mondo, col resto dei suoi abitanti, con la loro storia, col residuo di vita che lo circondava, e che per un qualche motivo non entrava in risonanza con la vita che portava dentro di sé. Non era una semplice sensazione di estraneità: era assai peggio. Era come se si fosse accorto di non essere mai nato in quel mondo: come se il suo parto fosse stato interrotto, lasciato incompleto, e non fosse mai venuto del tutto alla luce. Una persona postuma.
Con questi spettri che pulsavano, raggiunse il tavolo al centro del locale e si sedette di fronte a lei. Mentre lo guardava, confessando nel sorriso di non aver colto nulla del suo dissidio interiore, egli avvertì assoluta l’impressione di aver di fronte a sé una perfetta sconosciuta.


[1] W. Shakespeare, Macbeth.
[2] Vangelo di Giovanni.
[3] T. S. Eliot, The waste land.
[4] Diodoro Siculo, Biblioteca storica.
[5] G. Trakl, Tristezza.
[6] E. Montale, I limoni.

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