mercoledì 16 gennaio 2008

CERCAMI IL CUORE di Michele Ortore


Correva claudicante per il corridoio: il ginocchio si era gonfiato fino a diventare due volte più del normale, non riusciva più ad appoggiare la gamba. L’ultimo salto era stato troppo violento.
Aprì la prima porta a sinistra e si infilò nel buio della stanza senza guardarsi alle spalle. Aveva almeno dieci minuti, prima che Sword lo potesse raggiungere, così si lasciò scivolare con la schiena lungo la parete e si accucciò in un angolo. Il ginocchio aveva bisogno di riposo, o non ce l’avrebbe fatta a reggere ulteriormente la fuga. Stava scappando da almeno due ore ed il suo inseguitore non dava cenni di fatica, com’è ovvio che fosse per uno come lui.
Kal Amaf militava nei ribelli da almeno dieci anni. La resistenza era iniziata vent’anni prima, ma la guerra civile sembrava destinata a durare ancora a lungo. Aveva smontato il suo M16 per pulirlo dai detriti, quando da una duna in lontananza era spuntata una sagoma che conosceva bene. Dopo essere salito sulla sua jeep, aveva tenuto a distanza il predatore per almeno un’ora e mezza, prima che finisse la benzina. Era stato costretto a gettarsi da un piccolo dirupo ed ora si trovava in quel vecchio prefabbricato in disuso.
Sentì un frastuono di lamiere dal di fuori. Si alzò frettolosamente: aveva sbagliato i calcoli. Tornò nel corridoio e cercò di rovesciare più ostacoli possibili sul pavimento: un armadio, due tavoli, alcune sedie. Giunse al termine del corridoio e girò a destra. Si trovava in una specie di laboratorio, c’erano degli alambicchi su un piano di mattonelle opache: forse il prefabbricato era stato un’impresa chimica, o qualcosa del genere. Notò degli scaffali in fondo al locale ed iniziò a frugare tra gli scompartimenti, in cerca di qualsiasi cosa potesse essere usata come strumento difensivo. Trovò una fiala d’acido, mentre in uno dei cassetti c’era nitroglicerina in abbondanza. Doveva spostarsi da quella stanza, o un colpo a vuoto avrebbe potuto far saltare l’intera costruzione. Mise in tasca l’acido e si diresse verso l’altra porta. Mentre stava per aprirla, sentì il fragore del cancello d’ingresso che veniva sfondato. Era arrivato.
Nei pensieri di Kal Amaf baluginò l’immagine degli occhi di Sword. Ancora non li vedeva, ma già sentiva sulla pelle il brivido dei riflessi rossi delle sue pupille, vermigli come il sole nel deserto, eppure così algidi e deprimenti. La sola possibilità per sopravvivergli era fuggire: se non ci riuscivi, gli bastavano pochi millesimi per squarciarti il cuore con la pistola elettronica.
La maniglia non funzionava. Nel corridoio Sword stava muovendo i primi passi e probabilmente era stato bloccato dai tavoli, a giudicare dallo stridore del ferro sul pavimento. Kal Amaf prese un po’ di rincorsa e riuscì a sfondare la porta. Nello slancio appoggiò il ginocchio dolorante, rotolò a terra ed emise uno stridulo urlo di dolore: non aveva importanza far notare la propria presenza, Sword era dotato di sensori termici ed assolutamente insensibile alle onde sonore. All’interno la penombra impediva di capire dove si trovasse. Tastò con una mano la parete, fino a trovare l’interruttore della luce: il neon sul soffitto illuminò un largo piano opaco, che si estendeva per tutta la superficie laterale della stanza. Al centro, c’erano quattro grosse celle metalliche, che assomigliavano a dei frigoriferi. Ne aprì una, e fu investito dall’ondata gelida che ne proveniva: era assurdo, nella nazione l’elettricità veniva razionata e stillata da quasi cinque anni, e lì, in mezzo al deserto, una fabbrica chimica in disuso poteva permettersi quattro frigoriferi a pieno regime. Forse doveva esserci qualche alimentatore autonomo, ma non era il caso di controllare. Uno, due, tre tonfi metallici lo fecero rabbrividire. Stava per arrivare. La stanza era senza uscite, nessuna finestra, solo il pallore dell’aria e del neon. Perse la calma che aveva cercato di mantenere fino ad allora. Un altro rumore dal corridoio, secco, e poi tanti piccoli costanti passi. Passi di ferro.
I modelli Sword erano stati creati nel 2006. Inizialmente si trattava di automi radiocomandati, usati per lo più per la bonifica di campi minati, ma una società privata ne brevettò una nuova versione, armata di due M249, che poteva essere comandata da un esperto fino ad un chilometro di distanza. I robot si diffusero velocemente nelle guerre economicamente più impegnative, come quella nel paese di Kal Amaf. I politici incentivarono la crescita di questi armamenti, che evitavano il sacrificio di soldati umani, e rendevano i conflitti più accettabili per l’opinione pubblica. Anche tra le persone comuni l’idiosincrasia per la guerra scemò velocemente: nel momento in cui il sangue di un simile veniva versato dal braccio di silicio di uno Sword e non da un essere umano, il senso di colpa per quella morte lasciava spazio a una mera ombra di dispiacere. Grazie agli incentivi governativi gli Sword erano stati perfezionati fino a diventare autonomi: divennero in grado di individuare il nemico grazie ai sensori termici e di fulminarlo con gli armamenti robotici.
Il corridoio risuonava periodicamente sotto i colpi degli stivali di ferro: il robot era arrivato quasi davanti alla porta, e Kal pensò che l’elaboratore all’interno del cuore di alluminio stava già ordinando alle dita meccaniche di abbassare la maniglia. Chiuse a chiave la porta, tirò fuori dalla tasca la fiala di acido, e lo versò sulla serratura: i perni ed i rotori si sciolsero velocemente in una poltiglia grigiastra: ora aveva un po’ di tempo in più. Ma a cosa serviva? L’istinto di sopravvivenza ritardava il momento fatale, ma non poteva prenderlo in giro: era in trappola, senza uscita, sarebbe stato dilaniato da un fottuto ammasso di latta.
Sword stava indietreggiando. L’elaboratore aveva deciso di sfondare la porta.
Kal Amaf chiuse gli occhi, e pensò. Stava per morire, ma pensò, ricordò degli studi all’università e di quel tale che era sicuro che cogito ergo sum, e si disse che sì io voglio essere, essere fino alla fine, fino all’oscurità, essere sempre, essere a prescindere da cosa significhi essere.
E così continuò a pensare, mentre la paura scivolava via come gocce su edera. Essere ammazzati da una creatura non vivente è la tortura più crudele mai inventata. Nella guerra “umana”, anche nei momenti più strazianti e farneticanti, c’era sempre un paio di occhi da guardare: potevano anche contenere solo odio, pazzia, vacuità, ma nel momento in cui ti davano la morte sapevi che era qualcosa di sensibile a condannarti. Fino a sentire il proiettile che ti lacerava la carne, speravi in un miracolo, e fissavi quegli occhi, con speranza o rabbia o ardore. Morivi sapendo di aver comunicato, e non importava se il tuo assassino avesse recepito o no, importava solo che potenzialmente avrebbe potuto farlo, e magari pentirsi, migliorare. Nulla è tanto arido quanto dire addio alla vita di fronte a due led rossi: arrivano, e sai già di non avere scampo, di non poter nemmeno urlare. I robot sono ferraglia, mera materia: quando arrivano ad uccidere un uomo, anche la nostra carne diventa materia. E’ come morire di freddo, o di fame, è un’implosione che svilisce qualsiasi speranza di umanità. La pistola degli Sword individua il bersaglio umano e lo insegue fino a sparargli esattamente al cuore: il colpo è letale nel cento per cento dei casi. Se mai uno Sword sbagliasse mira, basterebbero cinque secondi per ricaricare l’arma.
La mia sarà una morte di plastica, sarò plastica, pensò Kal mentre l’androide sfondava la porta.

Nel silenzio, lo Sword mosse i tendini artificiali del collo. Fece due passi all’interno della stanza. I sensori termici emettevano periodici segnali sonori, stavano cercando di focalizzare l’obiettivo. Passò qualche minuto. Non sembrava dovesse succedere nulla.
All’interno di uno dei frigoriferi, Kal Amaf cercava di respirare il meno possibile. La bassa temperatura del frigo aveva impedito ai sensori di riconoscerlo, ma sarebbe bastata una variazione calorica appena più percettibile per attivarli. Non credeva che avrebbe funzionato, quando si era chiuso lì dentro: gli Sword individuano sbalzi termici anche minimi, ma forse quel frigorifero era talmente potente da raggiungere una temperatura fuori scala per i recettori dell’androide. Accanto a Kal c’era un contenitore di ampolle. Allungò cautamente il braccio per sfiorarlo, e fu costretto a trattenere un singulto d’angoscia: non riusciva più a muovere le dita, erano già completamente assiderate. Era ovvio: il robot non riusciva a percepire quella temperatura solo perché un uomo non sarebbe stato capace di sopportarla per più di un paio di minuti. Lo Sword era programmato per inseguire la preda fino a cinque ore consecutive: non aveva scampo, poteva solo scegliere come andarsene all’altro mondo. A cubetti di ghiaccio, oppure ridotto a brughiera da una squallida ferraglia?
In tasca aveva una piccola pistola, che teneva sempre con sé come ultima difesa. Sarebbe stato inutile tentare di usarla contro il robot: un calcolo aveva sancito che i riflessi umani fossero cento volte più lenti di quelli robotici. Non riusciva a muovere bene nemmeno il piede, ora.


Fuori c’è lui non si muoverà bastardo non farà un passo, ha capito che sono qui dentro, vuole che mi lasci morire così qui come un insetto un pezzo di carne da macello. Che faccio diavolo che faccio, sono un uomo, PERCHÉ NON LO SAPETE?, perché devo lottare per essere uomo?, ma eccoti qui, va bene aspettami, arrivo, sarò tuo tuo. Urlerò e ti prenderai il mio cuore, robot del cazzo, prenditelo e non tormentarmi più e non so come tu faccia a trovarlo sempre, precisamente, il cuore di noi persone, c’è gente che se lo cerca per una vita intera, il cuore, e voi lo trovate subito all’istante, e invece che custodirlo come una gemma rara lo spazzate via, e basta, non rimane niente, solo plastica, plastica come tutto, e come fate bastardi, ditemi almeno come fate a trovarl…

Kal Amaf decise che valeva la pena provarci. Aprì lo sportello del frigo, e tirò velocemente fuori la mano destra. Mentre il robot si precipitava di fronte a lui, pregò il suo dio che il sangue si sbrigasse a scorrere nelle dita, a ridargli calore. Lo Sword era a pochi passi da lui, non ebbe il tempo di guardare i led rossi che Kal sentì un colpo veloce, ed un dolore indescrivibile al petto. Urlò fin quasi a rompersi le corde vocali, e si concentrò sul dolore, e sorrise nel dolore sorrise, era a sinistra, nel petto ma a sinistra, provò a muovere le dita, contava i secondi, uno due, le dita si mossero, strinsero la pistola, tre, mirò il petto del robot, quattro, l’elaboratore era lì doveva essere lì doveva, cinque, sparò.

Mentre l’androide crollava a terra, Kal iniziò a ridere. Il suo sangue scorreva vicino alle mani poggiate sul pavimento, gli sporcava la guancia. Si distese supino. Respirava lentamente, ma a ritmo costante. Mentre chiudeva gli occhi, pensava a sua nonna, a quella vecchina morta a centosedici anni, con il cuore a destra ed il fegato a sinistra. Gli scienziati l’avevano studiata per anni, senza riuscirsi a spiegare come il suo organismo fosse così funzionale nonostante quella rarissima atipicità. Lui non era stato messo sotto osservazione, ma solo perché era scappato dai medici tediosi per dedicarsi alla lotta armata. Anche il suo cuore aveva deciso di nascere un po’ più in là, e questo i robot non l’avrebbero mai potuto sapere, né allora né in futuro: era difficile distinguere il segnale elettrico cardiaco da quello degli altri tessuti muscolari. La tecnica che usavano per mirare al cuore, era probabilmente quella di misurare le proporzioni somatiche, e calcolare di conseguenza la locazione cardiaca. Che è a sinistra, normalmente.
Gli androidi ed il cinismo dei loro creatori avevano previsto tutto, tranne il minuscolo splendore delle eccezioni.
Kal Amaf rimase lì disteso, guardando il neon, ed in quel soffitto bianco vedeva i suoi compagni che lo cercavano per le dune di sabbia, e l’avrebbero trovato, sì l’avrebbero fatto, ma in fondo nemmeno importava, perché lui era felice ed in quel deserto la meraviglia del caso aveva vinto ancora una volta sull’ipocrisia della previsione, solo un uomo, un uomo s’era salvato, ma in lui il mondo, l’alba ed i raggi riflessi dall’onda, e arriveranno i miei amici sì vivrò e


Gli Swords sono costruiti dalla società americana Foster-Miller (controllata dal ministero inglese della Difesa e dal gruppo Carlyle) per conto del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Secondo il Dipartimento Usa sono pronti per entrare in attività in Iraq. Del tutto autonoma è la pistola robotica della US Mechatronics che individua e segue un bersaglio umano fino a sparargli nel cuore.

Da Newton, n6, Giugno 2006




Nessun commento:

Avviso

I commenti di questo Blog sono moderati dall'amministratore. Ciò significa che contenuti offensivi o volgari verranno immediatamente eliminati. Siete quindi pregati di esprimere eventuali critiche in maniera civile e costruttiva.