martedì 17 marzo 2009

Numero di Marzo


Ecco in anteprima la copertina del nostro nuovo romanzo.
MILINGO CONTRO TUTTI di Filippo Anniballi, da aprile in libreria. Per ora accontentatevi del nuovo numero del nostro blog...

PRONTO SOCCORSO di Alessandro Monticelli


La mattina dopo mi svegliai tardi con un dito rotto.
Non ricordavo come fosse successo,la serata precedente era stata molto alcolica
Ma doveva essere accaduto nell’ultimo locale dove quasi all’alba
Buttavo giù gli ultimi bicchieri di vino e rum ballando e stringendo una femmina
Con un viso che purtroppo non reggeva il confronto con il corpo.
Così mi vestii usando nove dita, salii in macchina e mi diressi al pronto
Soccorso.Era quasi ora di pranzo di un sabato mattina privo di caos ospedaliero
Pochi camici bianchi e ancora meno i malati nei corridoi,forse ad una certa ora del giorno anche il dolore si riposa.
Suonai il campanello mi aprirono ed io mostrai il dito all’infermiere con baffi setosi
Che mi disse di attendere, il dito mi doleva ma prima dovevano sistemare un tizio
Con una grande benda su di un occhio e un ragazzo che doveva timbrare un certificato.
Aspettai credo una trentina di minuti pensando a cose assurde e fuori luogo come mi capita
Spesso nelle sale d’aspetto dove ogni tanto ci si ritrova per le più disparate situazioni.
Finalmente la porta si apre ed una infermiera sui trenta anni bassa e bionda mi fa cenno di entrare.
Ci sediamo in una stanza dove mi chiede le generalità e la causa dell’incidente,ignorando la causa mi invento una caduta (lo so da un artista ci si aspetta un po’ più di inventiva ma avevo sonno e la testa ancora fuori fase) lei mi guarda il dito e se ne esce con un “WOW è tutto storto”mi domando
Se prima di metterli là dentro gli facciano un corso di etica sociale sanitaria ma non mi va di risponderle e mi limito a guardarla come fosse un brufolo rosso al centro della fronte.
Dopo qualche minuto mi mandano nella sala raggi,per sapere come sta il dito hanno
Bisogno di una lastra ed anche lì aspetto nel corridoio vuoto non so quanto tempo mentre il personale all’interno di una stanza sparla ad alta voce degli orari di chiusura dei negozi e di una puttana che sembra mettere d’accordo tutti quanti su un paio di specialità della casa.Dalla lastra risulta chiara una frattura,quindi bisogna andare in ortopedia per una visita.Dopo un paio di giri a vuoto mi fanno sedere e tornano alla ricerca dell’ortopedico scomparso,alle mie spalle ci sono dei distributori automatici che vomitano a due tizi tramezzini e coca-cola i due si lagnano delle ultime detrazioni in busta paga e del turno di schifo che fanno. Per quel che mi riguarda credo che la gente sia stufa,annoiata,stanca perché magari fa un lavoro che non le piace, fa delle cose o vive situazioni
Che non le piacciono è insoddisfatta.Così penso che anche un piccolo segno serve a dare respiro
Ad una vita in apnea,può essere qualsiasi cosa da una buona scopata a un sorriso a una
rosa, qualcosa. Finalmente la caccia al medico si è conclusa,seguo l’infermiere ed il radiologo
per le scale, mi precedono in sincronia salendo i gradini uno a uno ed al centro con il cappotto
poggiato sulle spalle li seguo come i pugili quando entrano nell’ arena sferrando montanti
all’aria,il dottore sembra sapere il fatto suo mi dice cosa ho come sistemerà il dito e quando
ma prima di allora ordina agli infermieri di ingessarmi il braccio bloccando il dito. Alle 14:25
il gesso è fatto, mi poggiano di nuovo il cappotto sulle spalle ed esco dalla stanza preceduto
nuovamente dal mio team,ma dagli sguardi della gente e dal mio braccio è chiaro che l’avversarioabbia avuto la meglio. Mi avvio verso l’uscita e aperta la porta mi inonda un mare di luce, chiudo gli occhi e dalla tasca tiro fuori gli occhiali da sole, il mal di testa sembra scomparso la temperatura è mite, un vecchio in una jeep agitandosi bestemmia ad alta voce sporgendosi dal finestrino aperto un cane fermo all’angolo della strada guarda la scena e ride di gusto.

DEATH IN ESSEX di Poloismylife


“Ti sei bevuto l’ultima birra brutta merdaccia?”

Joe del resto ne ha le palle piene del fatto che non faccio altro che far finta di cercare lavoro e bere lattine di sidro a nastro, la sua è una missione che ha per scopo quella di farmi diventare quasi normale. Ultimamente Joe è come le puttane che smettono di battere, o i drogati che smettono di farsi, diventano tutti Giovanna D’Arco… si credono tutti dei piccoli E.J. Hoover che ti ronzano intorno come zanzare della CIA. Gli dai incredibilmente fastidio perché in un certo senso gli ricordi loro stessi. Non riescono a fare i conti con quello che sono stati, stai a vedere poi che è colpa tua solo perché sono tirchi e non gli va di andare da qualche tizio a farsi psicanalizzare…
La casa dove abitiamo con Zio e la sua sciroccata svedese del San Martin’s College, è su due piani e confina con un maledetto Kentucky Fried Chicken che come esci sulla scaletta nel retro, la scaletta di ferro, o ti viene voglia di pollo fritto oppure ti metti a vomitare sui gradini. Qualche volta pensi al suicidio. Sono tre mesi che sono venuto qui a ripigliarmi, diciamo che ci sono riuscito al 60%, sono persino più grassottello. Lo dice anche Joe quando si fa le canne spaparanzato sul divano, quando è di buon umore, quando si è trombato una diciottenne. Altre volte gli devono venire le sue cose e riesco a farlo stranire soltanto per la faccia che mi ritrovo e allora dice che sono quello di sempre. Nel mio caso non è mai un complimento anche se io per spirito di sopravvivenza lo prendo come tale e sorrido a trentaduemila denti. Le giornate si susseguono come fotocopie tutte uguali, per via del cielo sempre bianco, del odore di pollo fritto. Io però adoro la ripetitività, quindi mi sta bene anche sto tempo infame. Ha fatto delle belle giornate di sole quando ancora facevo lo spazzino a nord di Walthamstow, ma la cosa mi lasciava indifferente. Anzi, talvolta m’indispettiva giacché alle sette del mattino faceva freddo e verso le undici dovevo liberarmi della giacca poiché sudavo, quindi la dovevo sistemare alla male e peggio sul mio trabiccolo pieno di merdate. Un bambino paki una volta mi chiede con immensa faccia da cazzo e un inquietante peluria sul labbro superiore se sono per caso un barbone o se raccolgo soltanto la robba che i barboni si lasciano appresso. Non curandomi di essere visto dalle macchine che sfrecciano sulla strada a me assegnata, vibro un colpo di scopa ma il ragazzino la schiva e mi fa una pernacchia. Un futuro campione di cricket? Non ricordo bene perché mi sia licenziato dalla nettezza urbana del nord di Londra, anche se una vaga idea ce l’ho. Poco male. Dopo un po’ di cazzeggio, innumerevoli passeggiate per la via del mercato, su e giù con il Job center, vengo incastrato dal mio amico. Forse la diciottenne lo ha accannato per un coetaneo, infondo io non ci vedo nulla di sbagliato in questo. Dunque me l’ha trovato Joe un bel lavoretto, un impiego al Sainsbury’s, la catena di supermercati dentro la quale tempo qualche mese verrò arrestato per taccheggio. Joe mi porta un bel depliant e sostiene che ci sono immense possibilità di far carriera. C’è della malcelata ironia nelle sua parole, nonché una punta di sadismo. Di colpo mi metto in testa di nutrire un odio viscerale nei suoi confronti e smetto di rivolgergli la parola. D’ora in poi ci comunicherò soltanto a gestacci. La realtà è che lui non vede l’ora di vedermi indossare una divisa da babbeo, mica gliene importa più di tanto che io mi dia da fare, vuole vedermi vestito da pupazzo per venire colto da isteria e ridere fino a pisciarsi addosso. Inutili i miei piagnistei che preferirei rimettermi a fare lo spazzino, vendere il culo o seppellire morti. L’affitto incombe, non faccio mai la spesa, è ora che mi renda utile alla causa tanto più che ho finito di scrivere la tesi a Sofia, la debosciata di Zio e non ho più uno straccio di alibi. Oltretutto essendo Zio uno spacciatore, solitamente preferisco sempre farmi pagare in merce anziché in contanti. Niente da fare. Mi tocca andare a fare il colloquio, Joe non si fida e mi segue da casa e fino alla porta del supermercato, mi sistema la camicia e mi pettina come farebbe una mamma. Una volta dentro, sono circondato da inglesi ritardati e minoranze etniche dall’aria mille volte più determinata di me. Sono moderni, quindi ci fanno compilare un po’ di questionari in un ufficio dal soffitto fastidiosamente basso. Le luci sono al neon, vado a fumare una sigaretta al cesso e mi rendo conto che sono così pallido che sembro quasi trasparente. Forse, mi illudo, non mi assumeranno perché sono invisibile. Ma quelli che si curano delle assunzioni ne sanno una più del diavolo. Ci infliggono un filmino sul supermercato e poi ci dicono di annotare quello che abbiamo visto. Cristo, ho un gran bel spirito d’osservazione, come minimo mi fanno dirigente. La prendo come una sfida, ma vedo i pakistani e persino gli inglesi buzzurri scrivere senza sosta come reporter anni cinquanta. Io giocherello imbarazzato con la penna prestatami da una cicciona con il velo. Mi vengono in mente scioglilingua e filastrocche friulane che mi cantava mia nonna, sorrido alla mia nuova amica islamica ma lei mi ignora. Passano un po’ di giorni, Joe si alza per andare al lavoro e mi maledice perché io posso dormire in attesa delle decisioni dei responsabili personale del Sainsbury’s. Rido e mi tiro la coperta fino alle orecchie, Joe pensa a qualche forma di vendetta. So che devo stare in guardia, ma conto pecorelle e mi riaddormento. Io e il mio amico, condividiamo è vero il letto, ma siamo come Kato e L’ispettore Cluseau, sebbene sia difficile dire chi dei due è chi. Quando poi ci ubriachiamo, nonostante lui sia due metri e io solo uno e ottanta ci pistiamo, improvvisiamo bumfights che i nostri amici fanno finta di non conoscerci e ci lasciano a piedi. La nostra è una rivalità demenziale che viene fuori dopo la sesta o settima pinta. In genere iniziamo con delle punzecchiature, per poi passare agli insulti, a coinvolgere le nostre madri, fin quando in strada prendiamo la zuppa da quelli dell’esercito della Salvezza e ce la rovesciamo addosso, mentre ci prendiamo a pugni sulla scala mobile della metropolitana, che poi arriva qualche tipa in divisa blu che ci intima di piantarla che altrimenti chiama gli sbirri. Certo, certo… le interferenze altrui ci distolgono l’uno dall’altro, una breve tregua, ma poi si ricomincia che se non torniamo su per la scaletta di ferro nel retro di casa, belli imbalsamati non siamo contenti. Sofia ci chiede se siamo pazzi, noi le ruttiamo in faccia anche se Zio non è contento, ma pazienza lei è svedese.
Ed il lavoro purtroppo stavolta arriva. Joe mi consegna la busta marrone con un sorriso malvagio dal momento che l’ha già aperta e sa che il miracolo che aspettava da tempo è arrivato. Inizio a prendere a calci la stanza, non riuscendo a capacitarmi del fatto che quei pezzi di merda hanno avuto il coraggio di assumermi. Joe mi carezza la testa, io mi calmo e vengo rapito da visioni mistiche. Il lavoro lo immagino come una morte con un saio arancione, il colore del supermercato, anziché una falce, stringe un codice a barre. Vorrei scappare, ma stavolta proprio non posso. La casa in cui mi trovo ha un bel tepore, gli altri fanno la spesa e io di tanto in tanto mi metto a cucinare. Guardiamo Borat e pippiamo ketamina. E’ un idillio sfigato d’accordo ma pur sempre un idillio. Cosa ci sia di idilliaco non riesco a metterlo bene a fuoco, ma va bene così in fondo.
“Credi ti daranno una divisa Billy?”
Cerco d’ignorarlo, bevo dalla mia lattina di ghetto sidro facendo finta di seguire un documentario sull’aquarello, con tre rotti in culo che devono dipingere un paesaggio in qualche posto in Cornovaglia.
“Secondo me ti starà bene la divisa, ti darà un aria importante…”
Gli dico d’impiccarsi e mi accendo una sigaretta. Arriva pure Zio, si unisce allo sghignazzo dell’altro deficiente ma poi per tirarmi su il morale decide di portarmi a prendere un po’ d’aria fresca. Si va dal batterista dei Death SS, uno dei suoi clienti che preferisco. Uno che le pasticche le chiama “gnam gnam” e che la coca la chiama “naso”. Passo delle ore spensierate, il Death SS dice bestialità una dietro l’altra, Zio mi controlla per vedere se la cosa mi diverte. Per qualche oscura ragione a certe persone diverte il fatto che certe cose mi divertano. Ogni tanto devo andare al bagno perché mi viene la ridarella. Poi Zio mi offre una botta di bamba sperando che magari m’incastro e la smetto di fare l’imbecille che dopotutto lui sta lavorando. Ma questa specie di orso di uomo, credo venga da Sabaudia, Latina o qualche altro inferno laziale, non si rende conto quanto mi fa morire. Infatti io lo ascolto e lo invito a dirne di più grosse, così alla fine gli sto tanto simpatico che me ne offre una anche lui. Usciamo da tana delle tigri e visto che ci muoviamo come tutti e due come Pinocchio, Zio propone di andarci a fare un paio di pinte. Tanto paga lui…
Mi presento al Saynsbury alle nove del mattino del grande giorno. Vado nell’ufficio di un Pakistano moderno e corpulento. Sto tizio in giacca e cravatta parlotta con un inglese, sono di buon umore entrambi. I sfodero un sorriso costipato.
“A Filippo, come Filippo Inzaghi…”
Bofonchio una bestemmia tra i denti e mi presento nel reparto vestizione pupazzi. Mi mollano la mia bella divisa, adesso non ricordo ma oltre ai pantaloni a sigaretta da poliziotto e la camicia, c’è una sorta di cravatta che si fissa con una pin e il meraviglioso maglioncino arancione che Joe sogna ormai da giorni. Ma il pezzo forte sono gli scarponcini che mi fanno camminare come Frankenstein. Mi mettono subito nel ventre mollo del supermercato, il magazzino. Ci sono un ciccione cockney che non c’è mai e un tipo jamaikano di mezz’età che si rulla sigarette ogni cinque minuti. Vengo addetto allo scarico merci dai camion. Lavoro sulla rampa e carico il muletto a mano di generi alimentari, poi li metto dove mi dicono loro. Facciamo un po’ d’inventario, siamo la quint’essenza della svogliatezza. A pranzo vado a casa, i piedi mi fanno così male che se qualcuno mi regalasse dei pattini me li metterei per andarmi a suicidare contro mano addosso un camion. A casa non c’è nessuno e ringrazio dio, giacché finalmente posso constatare davanti allo specchio quanto sono finito in basso. Mi faccio un panino e due lattine di sidro, poi mangio un pacchetto di vigorsol, in preda ad un attacco di bulimia da gomma arabica. Torno al mattatoio e leggermente brillo aspetto istruzioni. Il Jamaikano mi dice di prendermela comoda, di sedermi pure. Poi arriva un inglese con un aria a metà tra il finocchio ed il nazista che mi chiede perché non ho nulla da fare. Borbotto che sono nuovo. Il pederasta fa una faccia strana e mi domanda se sono Irlandese. Questa poi…
“Allora che ci fa un italiano con un nome spagnolo a Walthamstow? precisamente nel magazzino di un Sainsb…”
“Non è spagnolo”
“Come ti pare, sicuro di non essere irlandese?”
Dopo che il rompipalle se ne va e il Jamaikano esce dal suo nascondiglio, gli domando cos’è sta storia degli irlandesi. Bob fa spallucce e dice che il tipo deve averlo pensato perché ho un aria pigra e che dicendogli di essere italiano non ho certo migliorato le cose.
Il giorno dopo Bob mi mostra il mio nuovo incarico. Andiamo fuori dove c’è una gigantesca pressa, davanti alla quale sono sistemati altissimi carrelli pieni di cibo avariato che dovrò sterminare io in persona. La pressa è pericolosissima, un tipo ci è morto dentro ma il mio collega non si ricorda bene come. Mi mostra il funzionamento dei pulsanti, mi da una specie di badile, una giacca e mi fa buona fortuna. Mi gratto le palle. Inizio a spiaccicare merda, maledicendo Joe ad ogni palata. Mi si inzaccherano per bene i pantaloni e smadonno perché da essi si leva un odore mefitico. Ogni tanto passa il Jamaikano a vedere se non sono morto o se per caso sono fuggito.
All’una torno a casa, Zio apre la porta e mi sbotta a ridere in faccia. Tiro via la linguetta dalla lattina e mi sparo tutta la pinta in un colpo solo, avanzo fino al salotto barcollando. Sono sul punto di mettermi a piangere. C’è Naso, ormai lo chiamiamo così al tipo dei Death SS. Lui non trova nulla di anormale nel mio nuovo modo di andare in giro. Se ne sta lì ad acchittare e siccome Zio si guarda bene dall’unirsi al suo cliente, mi offre una raglia che proprio non gli piace pippare da solo. A sto punto…
Mi passa la fame, mi imparanoio a pensare alla pressa, ringrazio Naso e scendo giù per la scaletta di ferro doppiamente irrigidito che gli scarponcini da handicappato non erano già abbastanza. Passo all’Off-licence e i turchi, abituati a vedermi sotto ben altre vesti, non ce la fanno a trattenersi e si fanno una risatina pure loro. Non mi incazzo perché mi fanno credito, mi attacco alla seconda lattina di K Cider e camminando come Forrest Gump quando ha i tutori di metallo mi avvio a spalare qualche altra quintalata di merda. La sera del giorno dopo, facendo del bricolage strafatto di ketamina mi apro il palmo della mano in due con un taglierino. Ho reciso il muscolo, Joe fa chiamare l’ambulanza a Zio perché gli viene da vomitare. Sento molto dolore e perdo tanto sangue, ma mi dico che tutto sommato domani dovranno metterci qualche altro stronzo davanti alla pressa. All’ospedale non sono in grado di ricucirmi, quindi il giorno dopo Joe che si è preso un bello spavento chiama un taxi mi ci sbatte dentro. Dobbiamo andare in un ospedale specializzato in questo genere d’infortuni, nell’Essex. Mi dico bene, io non ci sono mai stato nell’Essex…
Lungo la strada ci fermiamo a una stazione di benzina, siccome non hanno birra Joe mi prende tre quattro giornaletti porno, due Snickers ed un Mars.
“Puoi portarmi della robba domani? Ti faccio rientrare…”
Joe mi ignora. Do un morso a una barretta, la frullo dalla finestra, le altre se la stucca il mio amico ora concentratissimo nella lettura del porno che mi dovrebbe tirare su il morale ma che mi farà solo fare figure di merda con le infermiere.

IL GRANDE DRAGO VERDE di Nico Siriani



La signora Siriani sollevò la testa dalla rivista, con un sospetto. Il sospetto, che era sottile e appena percepibile, aveva il gusto acre di un limone appena spremuto, e si nascondeva come un indizio dietro l’odore di salsedine e della plastica dei palloni che rimbalzavano sulla sabbia. I palloni sbucavano fuori a centinaia e quando volavano per aria tutti assieme, sembravano poter ricoprire il cielo intero. Ma non succedeva mai. Rimanevano sempre delle larghe toppe azzurre, dalle quali filtravano i raggi del sole.Nell’alzarsi, la signora cercò di mantenere un certo contegno, visto che non le andava di farsi prendere per matta. Distese lentamente le ginocchia e si avviò verso la riva. Tanto non c’è fretta, pensò, lo faccio giusto per dare una controllatina, ma è tutto Ok. Lasciò le proprie impronte in fila indiana, finché non arrivò sul bagnasciuga. La sabbia friggeva e la spiaggia era come una padella. Annegò i piedi nell’acqua. Poi, con estrema calma, ispezionò con lo sguardo l’intero lido. Più tardi passò al mare e alle onde, standosene sempre ferma in quella sua posizione strategica.Quando il signor Siriani sentì le urla della moglie, capì subito quello che stava succedendo, ecco qui, si disse, un altra crisi d’ansia bella e pronta, e si lanciò verso la riva pronto a soccorrerla. Ma appena fu abbastanza vicino da poterle vedere bene il viso, gli si gelò il sangue. La signora era come una colonna di marmo bianco fissata nella sabbia, fatta eccezione per un braccio che teneva puntato fisso ad indicare un puntino verde in mezzo al mare.- Il drago verde è lì. - disse la signora. - Galleggia sull’acqua. Ma Monica non c’è. -A quelle parole il Signor Siriani si tuffò senza pensarci due volte e nuotò fino ad arrivare al drago, e tornò indietro. Riportò alla moglie la ciambella della figlia, che aveva la testa di un drago verde attaccata sul davanti, ma la figlia dentro non c’era.- Sta calma. - le disse - Probabilmente si sarà messa a costruire qualche castello di sabbia sulla riva e si sarà dimenticata della ciambella. Tutto qui. Vedrai che la troviamo subito. -Ma appena pronunciò quelle parole si rese conto che non era vero niente, e scoprì di essere già entrato in un film in cui non poteva far altro che rimanere a guardare i propri gesti, si vide mentre gridava il nome della figlia, e vide la moglie, e vide una gran folla che si era unita a loro senza capire bene il perché. Cercava di tenere d’occhio soprattutto la moglie. La vedeva stringere forte a sé la ciambella della figlia, mentre strillava, e pensava a cosa lei stesse pensando, e arrivò alla conclusione che il suo pensiero principale dovesse essere “che genitori terribili siamo stati a lasciarla tutta sola con questo orribile drago”. Anche a lui non andava tanto a genio, questa storia del drago. Si disse che magari sarebbe stato più opportuno comprarle una ciambella con la testa da orsetto o di tartaruga, e intanto si sforzava di rientrare nel suo corpo. Vide la folla spostarsi sempre più verso il mare, finché non ci entrò totalmente dentro e solo allora anche lui rientrò nel corpo, e si ritrovò accanto alla moglie e ne fu felice. Poi alzò lo sguardo e fu infelice di nuovo. La moglie lo vide immobile a fissare un punto lontano in mezzo al blu e all’inizio ebbe paura di guardare, ma poi si voltò anche lei. Il resto della folla scavava istericamente nell’acqua, sbracciando e urlando come se fossero stati attaccati da uno sciame di api inferocite, mentre i signori Siriani se ne stavano impalati, fermi, con lo sguardo fisso su un punto lontanissimo. Rimasero in questa posizione per parecchio ancora.E così capirono come stavano le cose.

B-SIDE di Giancarmine Di Matola


“Ed ora, signore e signori, ecco il personaggio che stavamo tutti aspettando. Facciamo un bell’applauso a Carmine Sannino, lo scrittore che ha dato lustro alla comunità di San Giorgio a Cremano”.
La voce di Giuseppe Setola, il presentatore del “1° premio Vigilia di Natale – Città di San Giorgio a Cremano”, uscì dagli altoparlanti stridendo come un gessetto sulla lavagna, raggelando gli spettatori seduti sugli spalti del palazzetto dello sport. Per l’occasione, Setola sfoggiava un vestito da babbo natale prestatogli dal fratello, una cafonata che fece inorridire gran parte dello staff.
Tuttavia, capì di aver fatto una stronzata ancora più grossa quando sentì il pubblico rumoreggiare dopo il suo annuncio. Dagli spalti arrivavano espressioni del tipo:
“Ma chi l’ha chiammat a st’omm è merd?” “'O pozzan' accirer' 'a stu zuzzus! Ropp chell ca fatt” “Cos’ e pazz’, mo ce rann pure ‘o premio ‘a stu curnut”.
Setola si guardò attorno come per cercare spiegazioni e vide che il sindaco, seduto a bordo campo, ringhiava come un rottweiler mentre il monsignore, seduto poco più in la, bestemmiava insieme all’assessore alle politiche culturali. Eppure la scaletta che gli avevano dato parlava chiaro: dopo il messaggio del monsignore, del sindaco e dell’assessore: dopo aver premiato il coro delle bambine, la squadra di volley e le allieve di danza classica; toccava a lui essere premiato.
Setola non sapeva assolutamente chi fosse “lui”, ma ne maledisse il nome. Aveva passato troppi anni a presentare cantanti neomelodici nelle feste di piazza più assurde e quella, era l’occasione per fare il salto di qualità e chiudere con quel mondo fatto di gente disperata e senza talento. Così, ostentando il suo sorriso di plastica, cercò di improvvisare qualcosa che lo tirasse fuori da quell’impaccio.
“Mi dicono che lo scrittore non è potuto venire a causa di precedenti impegni, quindi andiamo avanti con la serata e chiamiamo...”.
Ma il rumore di una porta sbattuta gli ricacciarono le parole in gola. Quando vide un’ombra sbucare da una porta d’emergenza alla sua destra, capì che sarebbe andato tutto a puttane. L’uomo avanzava barcollando e puzzava d’alcol come una cantina: la giacca lurida e i jeans strappati completavano quel quadro ripugnante. Così combinato poteva essere solo lo scrittore, si disse Setola odiandone la categoria.
“Sono Carmine Sannino”, fece l’uomo biascicando le parole. “Mi hanno detto che devo ritirare qualcosa…”.
Sugli spalti il brusio s’era fatto insopportabile e Setola, per non perdere il controllo della serata, dovette per forza accelerare la premiazione. Così, da un tavolinetto dietro di lui, prese una statuetta raffigurante Massimo Troisi vestito da zampognaro e glielo consegnò senza tanti complimenti.
“Chist’è ‘o premio, pigliatell e vattenn affancul!”, disse Setola con l’aria schifata e a microfono spento, perdendo per un attimo il suo viscido sorriso.
“Caro Babbo Natale, il premio te lo puoi infilare su per il culo, quello che voglio è il tuo microfono”. Sannino non biascicava più, la voce s’era fatta improvvisamente cupa e tagliente come una lama di coltello. Davanti alla durezza di quelle parole, il sorriso di Setola si frantumò in un milione di pezzi.
“Ma tu si scem! Si nun’a firnisc’ chiamm ‘a polizia e t’facc…”.
Ma Setola non riuscì a finire la frase perché Sannino, con uno scatto fulmineo, gli strappò il microfono dalle mani portandoselo a spasso. Quando arrivò a ridosso degli spalti, lo accese.
“Pronto…prova…pronto…prova…mi sentite tutti? Signori e signore, scusate il ritardo, ero al cesso a pisciare…”.
Scoppiò subito il caos. Dagli spalti partì un terribile boato carico di bestemmie, qualcosa che si poteva sentire allo stadio S. Paolo quando il Napoli sbagliava un gol. Il pubblico cominciò a lanciargli bottigliette, lattine, accendini e monetine, che Sannino schivò con sorprendente agilità.
“…lo so che mi volete tutti bene e anch’io ve ne voglio. Cinque anni fa me ne sono andato da questa città a malincuore, ma dovete sapere che il mio libro “Storie di una cittadina infame” ha superato le centomila copie e che a breve, ci faranno anche un film. Non so come dirvelo ma ve ne sono davvero grato e per dimostrarvelo, voglio ringraziare tutti i personaggi che hanno ispirato il mio libro.
E inizierò con voi, fottuti concittadini, che con la vostra mentalità di borghesucci avidi e ipocriti, mi avete regalato il contesto giusto per le mie storie. Ma ora passiamo a ringraziare i veri protagonisti del libro, che con mia profonda soddisfazione vedo presenti tra le autorità intervenute…”.
Setola era diventato freddo come una statua, ma doveva riparare ai deliri di quel figlio di puttana ad ogni costo, in caso contrario non lo avrebbero chiamato nemmeno ai matrimoni dei rumeni. Stava per prenderlo alle spalle per portargli via il microfono quando Sannino, con un manrovescio improvviso, lo spedì lungo sul pavimento.
“…stavo dicendo…quindi ringrazio il padrone di casa, il sindaco Ernesto Palumbo, che s’è inventato questa premiazione del cazzo a due mesi dalle elezioni. Evidentemente le accuse di truffa, peculato e dissesto finanziario, non gli hanno impedito di mettere su questo carrozzone per elemosinare il vostro voto. Eppure, quando denunciai i suoi intrallazzi sul giornale dove lavoravo, la redazione fu sommersa di lettere vostre che mi accusavano di aver infangato il buon nome di una persona onesta. Io fui licenziato in tronco mentre lui venne eletto.
Oggi come allora, meritate la sua rielezione.
Poi ringrazio padre Rosario Miniero, il nostro beneamato parroco, il quale, nell’ora di catechismo, ha l’abitudine di portarsi i ragazzini nella sagrestia per succhiargli il pisello, cosa che a suo tempo fece anche con me. Ovviamente sapete tutti che è un pederasta infame, ma come sempre fate finta di niente per paura che scoppi uno scandalo.
E come posso non ringraziare Manuela Brignola, la mia ragazza ai tempi dell’università, ora assessore alle politiche culturali e felicemente sposata al maresciallo dei Carabinieri Gianluca Prestieri, anche lui qui presente. Dimmi amore mio, sei sempre la stessa sadica depravata che mi lasciò dicendomi che ero un patetico fallito? Ma certo che lo sei ancora, te lo leggo negli occhi e scommetto che hai addestrato tuo marito ad essere un perfetto schiavo sottomesso.
Bene, mi sembra di avere ringraziato tutti. Voglio concludere augurandovi un Buon Natale e che possiate strozzarvi con tutta l’ingordigia di cui siete capaci.
Ora scusatemi, ma devo di nuovo andare a pisciare…”.
Sannino lanciò il microfono addosso a Setola che, steso a terra, piangeva come un bambino, poi imboccò il corridoio da dove era sbucato. Nello stesso momento, il pubblico inferocito invase il campo per inveire contro il sindaco ed i suoi accoliti.
Con la mano appoggiata alla parete del cesso, Sannino stava facendo la pisciata più bella della sua vita. Tutta la rabbia che aveva in corpo stava scivolando via insieme all’urina, una soddisfazione indescrivibile che lo ripagava di tutte le angherie subite. Restava da capire chi aveva avuto la bizzarra idea di invitarlo, ma era troppo ubriaco per fare supposizioni. Purtroppo, quello stato di grazia durò il tempo di quella pisciata perché da dietro, una mano d’acciaio gli prese la testa per i capelli e gliela infilò di prepotenza nella tazza. Setola ingoiò il suo piscio cercando disperatamente di non affogarci, finché la mano lo tirò fuori e lo scaraventò verso gli orinatoi a muro. Sannino gridava e bestemmiava per il dolore, ma l’uomo, con uno scatto felino, lo afferrò per il collo sollevandolo di peso.
“Lurido bastardo, è così che si trattano i vecchi amici?”. Era il Maresciallo Prestieri, il marito di Manuela. Il tono ironico nascondeva un odio carico di risentimento. “Adesso ti faccio passare la voglia di sputtanare le persone in pubblico”, e cominciò a colpirlo con dei tremendi pugni al basso ventre, fino a farlo quasi svenire dal dolore. Poi la porta si aprì e una severa voce di donna riecheggiò nella stanza. Prestieri lasciò subito Sannino, che cadde rovinosamente sul pavimento, poi si accucciò in un angolo come un cane bastonato. Sannino era steso su un fianco, paralizzato dal dolore, ma riuscì a distinguere un paio di scarpe nere con i tacchi a spillo che si avvicinavano. Una delle scarpe lo colpì leggermente con la punta, facendolo ruotare come un peso morto. Quando si ritrovò con le spalle al pavimento, fu accecato dalle luci dei neon. Appena la vista gli si schiarì, capì a chi appartenevano le scarpe.
“Ciao Carmine, sei stato molto cattivo stasera, lo sai?” Era Manuela, ancora più bella e bastarda di come se la ricordava.
“Si! Sono stato cattivo, tanto cattivo, e merito di essere punito…” Sannino non riuscì a trattenere un’erezione dolorosa. Dopo tanto tempo, quei modi da Mistress gli facevano ancora quell’effetto.
“E sia…” disse Manuela con un sorriso maligno, schiacciandogli i coglioni con i tacchi a spillo. A quella tortura si aggiunsero i calci del marito e subito dopo, quelli del sindaco, del monsignore e del presentatore, che nel frattempo erano entrati per pareggiare i conti con lui. Lo pestarono con rabbia e cattiveria e quando finirono, lo presero di peso scaraventandolo fuori dal palazzetto da una porta di servizio. Sannino si ritrovò sopra un cumulo di sacchetti della spazzatura e pensò che ci sarebbe rimasto fino a Natale, visto che non aveva la forza di muovere un muscolo. Ma dopo pochi minuti la porta di servizio si aprì di nuovo e una splendida ragazza, apparve sull’uscio.
“Ciao, vuoi picchiarmi anche tu?”, chiese Sannino toccandosi labbra tumefatte.
“No! Voglio solo aiutarti”, rispose la ragazza con un sorriso compiaciuto, poi lo prese per il braccio e dopo vari tentativi, riuscì a rimetterlo in piedi.
“Semmai te lo stessi chiedendo, io sono Tiziana, la tua compagna di banco al liceo”. Sannino era ancora intontito per l’alcol e per le botte subite, ma la memoria non lo ingannava: quella ragazza non le somigliava per niente.
“Tiziana! Per la miseria sei proprio tu. Ma cosa hai fatto, sei diversa da come ti ricordavo. Scusa se te lo dico, ma a scuola eri un cesso e ora invece sei…”.
“Una figa stratosferica? Lo so, me lo dicono in tanti. È vero, a scuola ero un cesso, ma niente che non si potesse correggere con una dieta feroce e un chirurgo plastico. E così ho fatto. Ora ascoltami bene, ho poco tempo e devo tornare dentro. Faccio parte dell’organizzazione e sono io quella che, all’insaputa di tutti, ti ha invitato a questa stronzata di premio. Quando mi hanno chiesto di stilare i nomi dei premiati, ho pensato subito a te. Qualcosa mi diceva che eri alla ricerca di un’occasione per fargliela pagare e a quanto pare, non mi sbagliavo, anche se mi aspettavo un epilogo diverso. Lo sai che ho sempre avuto una cotta per te, perciò stavolta vedi di non sparire. Mi devi un favore, ricordalo”.
Tiziana gli mise in mano un foglietto con scritto il numero del suo cellulare e prima di sparire oltre la porta, gli lanciò un occhiolino che era tutto un programma.
Sannino posò il foglietto nella tasca della giacca e accendendosi una sigaretta mezza ammaccata, pensò che non s’era mai divertito tanto come quella sera.

QUANDO ERO L'UOMO RAGNO di Gianni Solla



Fui convinto di essere l’uomo ragno per quattro mesi circa, esattamente tra il Maggio e l’Agosto dell’ottantanove. Non parlavo con nessuno e me ne stavo tutto il giorno rintanato negli angoli umidi della casa. Frequentavo i garage e le cantine, i soppalchi e gli scantinati. Sapevo di avere i superpoteri tipici dell’uomo ragno, quelli di cui tutti siamo a conoscenza attraverso la televisione oppure i fumetti, ma in effetti non li usai mai. Non si poteva escludere che fossi impazzito, che il mio cervello si fosse attorcigliato, liquefatto, imputridito, scaduto, beccato dagli uccelli, nido di vespe, sceso nella spina dorsale fino alle caviglie e perso nei calzini. Insomma avete capito. Intendo quando diventi sordo e ti dondoli e raccogli le sigarette per strada e gli occhi girano veloci e roteano lungo l’asse come un mappamondo. Allora ti dicono che sei pazzo, scemo, ricchione, anarchico, terrone, e patofobico. Vedi gli oggetti che si muovono e parli con il videoregistratore, ma soprattutto sei sicuro di essere l’uomo ragno. Strisci su una parete e lanci ragnatele, penzoli dal lampadario e esci di casa usando la finestra. Attraversi la strada dondolanti su una ragnatela e la gente vede solo il blu e il rosso della tua tuta che si riflette meravigliosa nel cielo. Essere l’uomo ragno non è da tutti e non si può dire mica a tutti. Ci vuole un lavoro normale e abitudini discrete. La prima capacità richiesta per essere l’uomo ragno è quella mimetica, quella di confondersi tra la folla e tirare avanti silenziosamente nel traffico e negli uffici. Per essere come gli altri devi per prima cosa sudare come gli altri e svegliarti presto la mattina. Niente ci vorrebbe a tirare fuori la ragnatela e fiuu attraversare la strada e fiuu prendere la metropolitana. Essere l’uomo ragno significa essere prima di tutto un uomo. Certo se solo avessi provato a lanciare una ragnatela o a fermare una metropolitana in corsa, come nel film spiderman che poi significa sempre uomo ragno, avrei capito che dai miei polsi non ci sarebbe potuto uscire niente altro che il mio sangue da scimunito che ero. E neanche la superforza usai mai in effetti. Quando l’ascensore nel mio condominio non funzionava salivo a piedi tre piani e alla fine il cuore impazziva nella scatola toracica e affannavo sempre. Ma non usai mai i superpoteri. In quel periodo lavoravo in un supermercato e mettevo le etichette con i prezzi sulle scatole. Conoscevo i prezzi dei prodotti a memoria. Philadelfia 1700 lire, Tonno star 1400 lire confezione da 100 grammi, Tonno star da 200 grammi confezione famiglia super sconto 2100 lire (ottimo affare), stuzzicadenti marca Tiger confezione da 400 pezzi 2000 lire. Anche la supermemoria era un superpotere ma non mi ero ancora accorto di essere l’uomo ragno e pensavo solo di essere piuttosto intelligente, ecco tutto. Certo mi muovevo con destrezza tra gli scaffali del supermercato e quando volevo riuscivo ad arrivare alle spalle dei clienti senza fare un solo rumore. Sarei stato un ottimo agente della vigilanza del supermercato ma anche un ottimo contabile e un ottimo cassiere. Il supermercato poteva contare su di me. Spesso mi fermavo a riflettere sulle mie caratteristiche fisiche, su queste capacità che dal nulla mi sbucavano e che mi bruciavano sulla pelle in cerca del proprio spazio. Per esempio ogni tanto uscivo nel parcheggio del supermercato e facevo una corsa lunga e folle fino all’uscita. Superavo le macchine che facevano manovra dai parcheggi e scansavo carrelli abbandonati sullo spiazzo come atolli sperduti nell’oceano. Restavo impressionato dalla velocità con la quale raggiungevo l’uscita e con quanta facilità evitavo gli ostacoli che mi si paravano davanti. Alcuni si fermavano a guardare e restavano impressionati dalle mie prestazioni. Poi tutto sudato me ne rientravo nel mio magazzino a imballare prodotti scaduti da destinare alle fondazioni umanitarie del terzo mondo e ad etichettare salami, carta igienica, veleno per topi e lamette. Un pomeriggio caldo di resistenze di frigoriferi, mi addormentai sugli imballi. Le scatole morbide erano un buon posto per dormire e a certe ore del giorno, quando la stanchezza ti risaliva dalle ginocchia fino alla schiena, basta davvero poco a perderti nel sonno. Mi arrivava così dolce che ci scivolavo senza neanche accorgermene e la dimensione onirica stessa si confondeva con la realtà in quella confusione di luci e di ombre. Mentre affondavo rimbambito nella palude dei sogni, qualcosa mi riportò alla luce. Un fastidioso prurito al braccio destro. Andai per grattarmi e vidi un grosso ragno camminare lungo il mio braccio e incastrarsi tra i miei peli. Lo scacciai subito con l’altra mano e quel diavolo con venti zampe andò a pararsi sotto alle scatole. Dalla rabbia cominciai a saltare sulle scatole vuote e quel bastardo con trenta zampe in niente dovette diventare un tutt’uno con il lineolum che stava steso a terra nel magazzino. Restai nervoso tutto il giorno e lavorai con più lena e più zelo del solito. Da solo sistemai qualcosa come ottanta scatolette di tonno in venti minuti, tutte rivolte con l’etichetta verso l’esterno dello scaffale e impilate in maniera perfetta. Sistemai anche i croccantini per i gatti ed alcune confezioni di sapone cha da mesi marcivano nel deposito. Sentivo i bicipiti gonfiarsi e venire fuori le vene e le scatole di croccantini volavano leggere tra le mie braccia. Un vigore eccezionale vibrava nei miei muscoli, tesi come acciaio. Volli allora mettermi alla prova e andai nel reparto animali a sistemare i sacchetti di sabbia per i gatti da dieci chili l’una. Riuscivo a portarne due per volta e con quanta grazia! Ritornai a casa attraversando velocemente il quartiere, così veloce che la gente a stento riusciva a fissami sulla retina mentre io percepivo tutto e la vista si era allungata arrivando a mettere a fuoco anche oggetti a dieci metri e la miopia che da sempre mi perseguitava sembrava affievolirsi e ridursi sensibilmente. Qualcosa in me stava cambiando. La stanchezza mi colse impreparato sul letto e in niente scivolai nuovamente nel settore buio e imperscrutabile del sonno. Feci un sonno convulso e pieno di immagini confuse. Metafore buone si confondevano con presagi cattivi e al risveglio il lenzuolo madido di sudore testimoniava le lotte intestine dei miei neuroni. Mi risvegliai con una consistente erezione che vibrava in mezzo alle cosce e me ne stetti un paio di minuti nel letto ad aspettare che tutto si normalizzasse per circolare in casa. Da dove proveniva quel vigore? Cosa stava succedendo? Presi grattarmi la bollicina che si era formata sul braccio e ad un tratto capii. Il morso del ragno nel retro del supermercato mi aveva profuso energie nuove e adesso mi stavo mutando in un essere sublime! La mia rivincita sul mondo e su tutti quelli che dicevano che ero scemo prendeva il via da quel ragno. E la cosa in fondo non mi stupì poi tanto perché in cuor mio ero certo di essere speciale, e i superpoteri da sempre albergavano in me anche se solo adesso ne prendevo coscienza. Sentivo tutti gli odori della terra e tutti i suoni e riuscivo a capire i pensieri del gatto mettendogli una mano sulla testa. Il prodigio che si stava compiendo era miracoloso.
Ne parlai con uno del reparto manutenzione frigoriferi. Si chiamava Andrea e una volta mi disse che riusciva a parlare con i morti. Non è che ci parlasse propriamente, nel senso di una discussione vera e propria, ma riusciva a stabilire una connessione con loro attraverso delle onde celebrabili. Erano i morti che si mettevano in contatto con lui e lui poteva solo ascoltarli senza riuscire a porre loro delle domande. Aveva comprato un libro che trattava il paranormale per documentarsi sul suo caso, ed aveva scoperto di essere un medium unidirezionale. Secondo il libro lui era una specie di antenna ricevente tra due dimensioni diverse. Quando me lo raccontò, gli credei e quindi vantavo un credito nei suoi confronti. Gli dissi che avevo una cosa da raccontargli e che dovevamo parlarne da soli. Lui intese che si trattava di qualcosa di delicato e restammo tutto il giorno in silenzio finchè non avemmo l’occasione di parlarne da soli. Gli raccontai tutto. Gli dissi che ero l’uomo ragno. Dapprincipio Andrea restò sconcertato, e disse che ero completamente impazzito. Quel bastardo di un visionario che parlava con i morti osava dirmi che ero io il pazzo. Disse che avevo bisogno di uscire e di andare a donne e di smetterla di restarmene da solo con queste fantasie. Gli urlai in faccia che io di donne ne potevo avere quante ne volevo e che mi aveva deluso perché pensavo che lui fosse una persone più sensibile degli altri e visto che c’eravamo quella cosa dei morti era proprio una stronzata e forse era lui che aveva bisogno di andare a donne. Lavorai rabbioso come un cane tutto il giorno e spostai tonnellate di sacchi di sabbia per i gatti solo per il gusto di spostarle. I clienti del supermercato percepirono il mio livore e si tennero alla larga, nel loro ideale raggio di distanza minima dal pericolo. Se solo avessi potuto avrei trasformato tutto in un bozzolo gigantesco di ragnatela. Tuttavia ero sicuro che la mia volontà sarebbe bastata per farlo. Andrea mi prese per il culo tutto il giorno e ogni volta che ci incrociavamo nel deposito, faceva finta di arrampicarsi sulle pareti, oppure si metteva a terra a camminare come i ragni. Fu da quel giorno che non parlai più con nessuno. Con nessuno. La gente pensava che io fossi impazzito, e la mia afonia li rendeva pazzi, ma io custodivo un segreto. Lasciai il lavoro e mi rintanai nella mia camera. Progettai grandi piani per salvare cose e persone e per ristabilire l’ordine nella città. Tutto era semplice ai miei occhi e la scintilla della follia oramai mi aveva reso cieco, allontanato da ogni barlume di intelligenza e di senso della realtà. Andai avanti in queste condizioni per altri tre mesi. Ero dimagrito e le ossa sbucavano spigolose da sotto alla pelle, i muscoli che credevo d’acciaio si erano afflosciati e se ne stavano rinsecchiti, attaccati alle ossa con il cotone delle mie visioni. La notte facevo solo incubi ed avevo il terrore del buio. Provavo rabbia verso tutti, e cercavo una vendetta per i delitti che non avevo ancora subito e per le ingiustizie che ancora non si erano abbattute su di me. Cominciai in quel periodo a guardare la televisione, soprattutto i telefilm. Li preferivo ai film perchè avevo il tempo di conoscere il personaggio e di familiarizzare. Così mentre seguivo con gli occhi i ghirigori disegnati dalle crepe nel parato, guardavo la televisione per tutto il giorno. Alle undici del mattino su rai tre davano la signora in giallo. "Murder she wrote" era il titolo della serie, ma a Napoli si chiamava la signora in giallo. La protagonista era Jessica Fletcher una signora sui sessanta che in ogni puntata si trovava a che fare con un assassinio. Spesso quando il cadavere non faceva parte della sua cerchia di conoscenze, veniva chiamata in causa da un suo amico poliziotto che le chiedeva di aiutarlo a risolvere il caso. Jessica Fletcher era vecchia e piena di rughe, però aveva sangue freddo e coraggio. Lei non aveva bisogno di alcun superpotere per risolvere i misteri, altro che uomo ragno, si serviva soltanto della sua potente mente e di una capacità di elaborare la dinamica dell'omicidio incredibile. Il suo segreto era l'esperienza. Jessica Fletcher, la rugosa e praticamente morta Jessica Fletcher c'aveva le palle e questo era fuori discussione. Non c'era avvocato che uccideva la moglie ricca, commercialista che uccideva la moglie ricca, medico che uccideva la moglie ricca che era capace a sfuggire all'intuito investigativo di Jessica Fletcher. Restai molto impressionato da una puntata dove un parrucchiere omosessuale uccideva il suo amichetto ricco. La trama era davvero complessa e il finale imprevedibile. Cominciai a prendere degli appunti per delle nuove trame da proporre alla produzione del telefilm. In una sola mattinata ne scrissi una intera dove il protagonista era un macellaio e uccideva la moglie ricca. Il titolo della puntata era "filetto al sangue". Avevo un'impostazione più proletaria e mi piaceva di ambientare le puntate in un contesto sociale popolare perchè gli spettatori si rispecchiassero di più. Alla mia maniera davo un'impronta letteraria al telefim. Scrissi infine un capolavoro con dei forti motivi autobiografici, si chiamava "omicidio nel supermercato" dove un operaio addetto al magazzino, dopo ripetute provocazioni da parte di un suo collega psicolabile, l'ammazzava nel parcheggio del supermercato con i sacchi di pietrine per i gatti. Jessica Fletcher beccava l'assassino e sentite le sue spiegazioni non lo denunciava in quanto volutamente provocato dallo psicolabile. Autocensurai alcune scene di violenza esplicita dove il protagonista sbriciolava il cervello dello psicolabile riducendolo alla consistenza brodosa. Rilegai tutto e l'imbustai in una grossa busta gialla. Spedii la busta gialla agli studi di Rai Tre di Napoli, dove tutti i giorni Jessica Fletcher girava la puntata e attesi. Fu da quel periodo in poi che decisi che sarei diventato un investigatore privato.

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