venerdì 7 marzo 2008

Numero di Marzo


Ecco a voi il numero di Marzo. Ricordiamo a tutti voi frequantatori che dal 28 al 31 Marzo Ad Est dell'Equatore sarà presente con uno stand alla fiera del libro Galassia Gutenberg che si terrà presso la stazione marittima di Napoli. Inoltre, in questa occasione, invitiamo tutti voi alla presentazione del nostro primo libro Tutta colpa di dio il giorno 29 Marzo alle ore 19:30 presso la sala Teti. Non mancate.
Saluti dall'est dell'equatore.

ARISTOFANE di Stefano Nardella



“L’utopia si arena di fronte alla concretezza dei fatti”
Il professore mugolò questa orrenda frase al microfono, mentre tutti lo guardavano con ossequiosi sguardi compiaciuti.
Quella frase mi fece sobbalzare dalla sedia e mi svegliò da quello stato di dormi veglia che mi assale ogniqualvolta il mio culo siede in un banco di scuola.
“com’è possibile che anche qui i professori dicano simili cazzate?!” pensai tra me “invece di insegnarci a coltivare i nostri sogni fino a renderli realtà, invece di seminare voglia di credere nell’impossibile per realizzare il possibile, ci riempiono la testa di frasi simili , buone solo ad imparare ad ubbidire e a credere che la concretezza dei fatti conti più dei nostri sogni”
Avrei voluto alzarmi e gridargli in faccia questo e altro.
Cercai con lo sguardo qualche faccia contrariata da quel affermazione , ma tutti erano indaffarati a prendere appunti e annuire ad ogni cazzata che usciva dalla bocca di quel coglione .
Ero talmente schifato che dovetti uscire.
Fuori c’era un gran sole.
Mi diressi verso il parco più vicino, mi sdraiai sull’erba e accessi una canna.
Fumavo sdraiato guardando il cielo sgombro dalle nuvole.
Mi venne in mente la teoria di Aristofane sulle nuvole.
Le nuvole sono i potenti della terra che si intromettono tra noi e il sole , che simboleggia la libertà.
L’utopia si arena di fronte alla concretezza dei fatti e le nuvole ci impediscono di sognare , di essere liberi, di guardare in faccia alla libertà …. Mi addormentai con la testa inebriata dalla canna e dai suoi inconsueti effetti filosofici.
Quando mi svegliai il sole stava scendendo.
Mi alzai e me ne tornai a casa.
“L’utopia si arena di fronte alla vostra paura di essere libero, e non si azzardi più a fare delle vostre paure argomento comune .
Noi vogliamo sognare
Vogliamo guardare oltre le nuvole
Vogliamo il mondo e lo vogliamo subito
Le sue insulse frasi da perdente, caro professore, se le tenga per lei
Uno studente contrariato e sognatore”
Scrissi questa e mail di getto e gliela inviai
Dopo qualche giorno ebbi una risposta
Diceva:
“Hai del fumo pure per me?
Ho dimenticato come si sogna”.
Il giorno dopo tornai in facoltà con una canna rullata nel pacchetto di sigarette.
Cercai il professore per tutto l’istituto, ma non lo trovai.
Incontrai un amico.
-hai sentito che cazzo è successo?
-no cosa
-il prof di storia è morto
-come morto?!
-si è ucciso ieri sera
-cazzo!
-già, sembrava così tranquillo
Avevo ucciso un uomo. Senza usare le mani. Lo avevo ucciso con le mie parole
Tornai al parco e accessi la canna, ne fumai metà e l’altra la lasciai nell’erba.
La feci fumare al vento sperando che ne lasciasse due tiri a quel anima in pena del professore incapace di sognare.
L’utopia si arena davanti alla concretezza dei fatti….ma la concretezza dei fatti può uccidere…i sogni no
-signor Nardi!! Signor Nardi si svegli la lezione è finita da un pezzo, e lei come al solito ha dormito tutto il tempo…mi auguro almeno che abbia fatto un bel sogno?-Era il prof di storia che mi urlava nelle orecchie
L’aula era semi vuota e quei pochi rimasti mi guardavano ridendo
-si…peccato però che era solo un sogno
Mi alzai e me ne andai dritto al parco.
Fumai la mia canna guardai le nuvole e pensai ad Aristofane.Chissà se davvero Aristofane ha detto quella storia sulle nuvole e sui potenti o l’ho solo sognata.

SENZA TITOLO di Gianluca Pesenti Compagnoni


Quando la libidine prende il possesso è tremendo tenersi a bada. Quasi un delitto non lasciarsi andare. Io per me avevo cercato di tenermi anche, sulle mie dico, ma quando sei lì col sangue alla testa non ti puoi fermare. Perdi il senso minimo di responsabilità.
Al veglione di natale ero fatto. Il vino e il cibo abbuffato m’avevano stravolto. All’ultimo brindisi m’alzai da tavola e andai in una camera. Tirai per terra i pastrani dal letto e mi stesi sul letto addormentandomi immediatamente.
Poi.
La porta si schiuse. Era buio. Una sagoma mi s’avvicinò. Il letto sobbalzò di schianto. Respirai un buon profumo di donna. La camicetta nera, aperta fino al petto. Un filo di perle bianche le cascava tra i seni. Capelli lisci, curati.
«Mmmhhh», fece.
Era Vera Mulotova, la donna del padrone di casa. Castellammare aveva avuto una sorprendente immigrazione di gente dell’est. Ucraini e polacchi la maggior parte. Le ragazze più carine non avevano avuto problemi ad accasarsi compiendo il salto di qualità. Il resto si divideva tra manovali, colf, e tutti quei lavori che noialtri avevamo schifato.
«Vera hai un profumo molto eccitante.»
Era ubriaca. Manteneva gli occhi chiusi. Mi passò la mano sul viso andando a tentoni e fece di nuovo: «Mmmhhh.»
M’avvicinai a lei.
Eravamo faccia a faccia distesi di lato. Respirai profondamente il suo profumo ed ebbi un’erezione violenta, spudorata. Il suo era più che mai un richiamo sessuale. Agii. La baciai. Lei si rivoltò sul letto, mettendosi supina. Le aprii la bocca e le ficcai la lingua dentro. A lei piaceva. Le infilai la mano sotto la gonna. Indossava i collant, faticai un po’ per arrivare alla fossa. Le sfrucugliai il grilletto. Vera era una donna carnale.
«Mmmhhh, Santiago cosa stai facendo?»
«Voglio scoparti, e credo che anche tu lo vuoi.»
«Ma di lì c’è il mio uomo, non ti vergogni?»
«A me non importa, importa solo scoparti.»
«Sei un porco!», disse alzando la voce.
Io continuavo.
«Sei un porco!», rifece.
Allora le menai su con veemenza le dita su.
«Sei un porc…!»
vera cominciò a dimenarsi e mi diede un paio di schiaffi.
La tenni ferma con una mano e con l’altra aprii la patta e lo cacciai di fuori.
«Ooohhh! Dio santo Dio! Ti prego non farlo.»
Le forzai la camicetta e le baciai la tetta. Era morbida e calda. Senza che le dicessi nulla Vera aveva cominciato a menarmelo su e giù.
Le guidai la testa e lo prese senza alcuna resistenza.
Che i satiri mi vengano in gloria se quella non era la sua arte!
Quando ne fui sazio me ne staccai a fatica e la spinsi sul letto.
Le dischiusi piano le cosce, il vestito da sera fuori posto, la camicetta slacciata. Vera aveva un volto tremendamente eccitato. Restammo per un attimo così, distanti un palmo. Io, in ginocchio con un’erezione enorme. Lei, in fremente attesa con le braccia a penzoloni dal letto.
«Ti prego, non farlo.»
Tirai giù i collant a sufficenza per farmi spazio. Spostai la mutandina, ed entrai. Così, di schianto.
Vera emise un gemito che soffocò mordendosi le labbra per non urlare.
«Sei un porco, sei un porco, sei un maiale!»
Sussurrava una vocina godereccia. Un vocina arrapante. Vera Mulotova era la quintessenza dello stupro. I capelli, le tette, gli occhi, perfino i vestiti t’imploravano di chiavarla. Le afferrai le natiche e avviai a farglielo sentire sul serio. Vera si morse la mano.
Fermarci era impossibile. Anche se ci avessero scoperti non avremmo smesso prima d’esser venuti.
«Sto venendo!», disse lei.
«Porca troia anch’io sto venendo!»
Vera vibrò. Nel momento in cui fu al culmine diedi dei poderosi colpi di reni, e fu l’estasi.
I nostri corpi presi dalla libidine divennero incontrollabili. Continuammo a muoverci come tarantolati. Vera mormorò alcune parole in russo. Io gliene dissi un paio in napoletano.
A malincuore mi sganciai. Mi rassettai e andai al bagno ch’era in camera. Le ginocchia non mi reggevano. Tremavo tutto. Pisciai tenendomi con una mano alla parete per restare in piedi.
Mi pulii, uscii e mi sdraiai sul letto accanto a Vera, che intanto s’era assopita. Com’era bella.
La libidine fa perdere il controllo. Rischi di finire male. Certo. Se m’avessero sgamato, me la sarei vista brutta. Ma non provarci è come sciupare il pane.

QUINDICI MINUTI DI ORDINARIA FOLLIA di Masquerade


C’è un bel sole, l’aria frizzante e i fiori già sbocciati in giardino, mattina di Pasqua, la tavola apparecchiata in modo ineccepibile, otto posti, ognuno perfetto, ognuno con il proprio segnaposto, tre bicchieri, sottopiatto, tre piatti, posate per gli antipasti, per il primo, per la carne, per il pesce, per il dolce e la frutta... centrotavola con fiori e frutta freschi fatto per l’ocasione... uova colorate fatte da noi bambini ed ovviamente portate in chiesa a benedire.
Rumore di fondo una musica di Santana, i miei genitori ed i miei zii solevano tenerla sempre durante le cene ed i pranzi di famiglia, le urla di noi ragazzini che ci rincorrevamo per casa e giocavamo nell’attesa del pranzo facevano da controcanto a quella musica... chiacchiere in sottofondo invece dalla sala dove i due fratelli discutevano serenamente.
Una tranquilla domenica di festa... una gioia per gli occhi, una gioia per il cuore di chi ci guardava giocare sereni per poi sederci educatamente a tavola, non prima di esserci lavati tutti quanti le mani nel lavandino del bagno tirato a lucido, prima del nostro arrivo, perchè dopo era un lago di acqua sguazzante dove ci avrebbero potuto mettere un pesce rosso senza che questo rischiasse di rimanere senz’acqua.
Io e mio fratello da un lato del tavolo, mio cugino e mia cugina dall’altro lato con in mezzo le nostre mamme, i babbi rigorosamente ai due estremi, ognuno a capotavola come si compete a dei capofamiglia... che loro a quel ruolo ci hanno sempre tenuto... loro erano quelli che portavano in casa i pantaloni, loro erano quelli che provvedevano con il loro lavoro all’abbondanza che c’era sulle nostre tavole, loro erano uomini... andavano obbediti, andavano rispettati, andavano amati... sempre e comunque.
Poi le chiacchiere da tavola, le portate che si susseguivano mentre noi ragazzini ce la godevamo a ridere, a scherzare ed i “grandi” discutevano di cose che a noi non interessavano un granchè, tutto con tranquillità e con educazione, perchè da sempre ci avevano insegnato che quando siamo a tavola si deve rispettare il cibo che c’è nel piatto, e si devono rispettare gli altri, quindi tutto deve essere fatto nel modo giusto...
Poi... poi...
Quindici minuti di ordinaria follia... nel piatto di mio cugino sono rimasti una decina di pisellini, piccoli, morbidi, verde smeraldo perchè la mamma sa cucinarli come si deve. Il tono basso di mio zio che dice: “mangia quei pisellini, non si lascia la roba nel piatto!”, io e mio fratello ci stringiamo la mano, vedo la faccia tesa di mia madre, di mia zia e di mio padre, mia cugina dà una gomitata a suo fratello e gli sussurra: “mangiali ti prego!”
Sappiamo... Tutti sappiamo cosa sta per accadere... Tutti sappiamo.
Gli occhi son fissi su mio cugino che con occhi supplicanti risponde: “non mi ci vanno, davvero, non ce la faccio proprio a mangiarli.”
Quindici minuti di ordinaria follia... non respiro quasi, così come mio fratello... mia cugina alza la mano per prendere il piatto di suo fratello e dice: “li finisco io, ho proprio fame oggi”, mio zio la fulmina con lo sguardo e ripete a mio cugino: “mangia quei pisellini, non sono nemmeno una decina, mangiali!”
Due occhi neri come la brace si alzano a guardarlo ed una vocina risponde: “NO”.
Quindici minuti di ordinaria follia... la mano è già alzata, la cinghia dei pantaloni è apparsa non si sa come e si abbatte con violenza sul braccio di mio cugino che ripete: “No, ti prego, no” e si alza e si nasconde sotto il tavolino accanto al divano... la figura di mio zio incombe su di lui, mentre noi tre ragazzini restiamo seduti atterriti... le mani strette, il nodo in gola, il terrore che non ci fa uscire una parola per paura che quella stessa cinghia si abbatta su di noi... i grandi che cercano di farlo ragionare... e mio cugino che continua a gridare: “no, ti prego, babbino, no...” e quella cinghia che si alza e si abbassa, si alza e si abbassa... e ancora e ancora... le braccia e le mani di lui a proteggersi il viso che cambiano colore... e quella cinghia che si alza e si abbassa... si alza e si abbassa...
Poi... il silenzio... solo Santana che continua a suonare...
Poi... la sua voce: “a tavola che adesso c’è il dolce e le vostre mamme lo hanno fatto apposta per voi”.
Quindici minuti di ordinaria follia...
Mio padre non mi ha mai toccata con un dito, non mi ha mai dato uno schiaffo, non mi ha mai torto un capello, ma quel giorno...Quel giorno nessuna ha fermato quei quindici minuti di ordinaria follia... Nessuno lo ha fatto!

I'D LIKE TO CONQUER THE WORLD (BAD RELIGION) di Sara Renier


Casa. Tara non si è ancora trasferita da me, e questi sono alcuni di quei giorni in cui mi trovo a mangiare patatine e a recuperare le briciole che mi finiscono nell’ombelico.
E il mondo mi gira intorno, mentre ascolto ininterrottamente una canzone con un bel ritmo, ma di cui non capisco neanche vagamente le parole.
E poi mi raccolgo i capelli per dargli forma, mi taglio le unghie e gli do lo smalto, e mi trucco un po’ perché inizio veramente a farmi schifo. Non faccio nulla dalla mattina alla sera se non pasticciare riviste, ascoltare Courtney Love e ballare davanti ai suoi poster, bere vino scadente da un biberon e cercare di sentirmi felice. Ho un ragazzo che attende di vivere e morire senza fare nessuna fatica, che mi ama addirittura senza fare fatica.
Finchè le parole della canzone che continuo ad ascoltare non assumono un senso, e innescano una strana reazione chimica nella mia testa, allora faccio la valigia e la riempio di cose inutili, e con un calcio mando in tintoria tutta la mia vita e mi preparo ad indossarne una nuova, sicuramente più alla moda.
Sul frigorifero lascio un post-it che sicuramente Sid e Tara avrebbero letto prima di essersi stancati del tutto della loro esistenza.
IO SCAPPO.
Prima di scappare sono passata da casa di Daniel a salutarlo.
Mi ha aperto vestito di tutto punto, e mi sono accorta che aveva dipinto tutte le pareti di casa in rosso.
Mi sono seduta sul divano avvolta da un velo di odore di vernice sanguinante, e ho accettato il beverone super-alcolico che mi aveva offerto.
“Perché scappi? Hai tutto cazzo.”dice lui strofinando il tappeto con il piede.
“No Dan, non ho proprio nulla. Mi manca dentro qualcosa, nel corpo, mi manca la forza. Ho bisogno di ragazzi in concerto che gridano la loro rabbia, visi sorridenti che cadono a faccia in giù verso il cielo, aprendo braccia e gambe come per aggrapparsi all’aria. Ho bisogno di sentire i miei piedi nudi ballare, e tenere la testa giù fissa sull’asfalto e correre, sentire finalmente la forza uscirmi dalle braccia, dalla gola, dai capelli, come se potessi da un momento all’altro diventare molto più grande, straboccare dal mio corpo e prendere nuove vite.”
“Ti mancano i tempi passati”
“No Dan, i tempi passati erano solo follia giovanile. Sempre folle mi sento, ma mi manca l’amore dentro, Sid prima mi riempiva, ora mi svuota, la mia vita è vuota, voi siete diventati vuoti!” ho urlato piangendo contorta sul divano.
Poi mi sono alzata correndo, e sempre correndo sono salita in macchina con una precisa destinazione. Una destinazione che sapevo avrebbe finalmente saziato la mia voglia di sentire dentro la vita scorrere più veloce del dovuto.
Per strada ormai facevo fatica a guardare dove andavo, non osservavo, lasciavo solo andare il corpo, avevo bisogno di abbandonare il mio corpo alla follia, mangiare erba, coprirmi di vernice e spargere il mio corpo sui muri di casa, fare il bagno vestita, prendere a schiaffi la mia anima e sputare sui miei libri. Liberare il mio corpo alla musica, buttare i pensieri in pattumiera, o nel cesso.

ALI GEORGE ANIMA NERA di Anonimo


Alì vende cd,laureato in Africa col massimo dei voti,giornalista sognatore di sinistra,fa il nero nel salotto di Napoli,furbo,furbissimo,sa che gli conviene.Fratello,amico,tutti lo chiamano così,e lui risponde we combà combra ciddì!Frega tutti lui,mentre fessi e contenti i napoletani ricchi,dicono agli amici,hai visto?Me lo sono fatto,cinque cd ed uno gratis!La furbizia si sa fa parte del nostro spirito,ma non sempre è una prerogativa che appartiene a tutti,l'unica cosa che accomuna questi "bravi"ragazzi è la soddisfazione nel fottere il prossimo,anche un semplice venditore ambulante.E lui si fa chiamare Alì perchè fa rima con cd,mette la b al posto della p,si veste con camici coloratissimi,collane di legno,turbanti,roba che non indossano più neanche in Africa,sorride sempre,ride alle battute stupide,perchè è furbo,troppo furbo,sa che vuole la gente,sa come darglielo.Torna a casa,si cambia,camicia e pantalone,diventa George solo per signore.E' furbo,troppo furbo,sa che vogliono le donne,sa come darglielo.Irriconoscibile,nel giro di tre ore torna negli stessi posti,nessuno più gli dice fratello,nessuno più gli dice amico,le donne lo guardano e gli uomini lo invidiano,elegante ed altissimo,si aggira nei locali,si siede,beve un drink ed è fatta,lui non vuole la ragazzina,cerca la donna vecchia ed insoddisfatta.George,caro George,parlami della tua terra,degli odori,della gente,delle danze,dei suoi riti,e lui giù a dire stronzate da film,da documentari commerciali sui safari e gli animali,l'Africa che non è Africa,l'Africa che conosciamo,che a noi basta conoscere!Intanto pensa dentro sè:quale terra,quali odori mia signora,quali danze e riti,io ricordo fame e sfruttamento,povertà e disperazione,rabbia tanta rabbia,quella che c'ho addosso io,quella che ti metterò dentro cara vecchia,tu vuoi l'Africa e l'avrai,con duecento carte altro che danze e riti,gente e odori,sentirai il mio male e tutto il mio dolore!E George ci dà dentro e questa donna è senza pudore senza vergogna,dice parolacce,urla,urla a squarcia gola cose irripetibili,allusioni più che esplicite a tutta forza sulla sua fisicità,tanto da fare schifo,tanto da fargli schifo!Prova fastidio nel vedere le foto di famiglia col marito e con i figli sorridenti,pensa al suo paese,alla sua gente,alla sua pelle,non ci trova più senso,si chiede cosa stia facendo,lui,un uomo intelligente e tanto furbo,è tornato a far lo schiavo,per piacere e per il piacere dei potenti!Lei ha tutto,pane,acqua,casa,soldi,figli,felicità.Gli fa schifo che lo sfrutti così spudoratamente per godere,per il suo essere africano,nel suo paese era un sognatore,un'idealista,ed ora fa tutto quello contro cui combatteva,per cui è scappato,era diventato il luogo comune per eccellenza dell'uomo nero!La furbizia non dà la dignità,la furbizia non è sempre un pregio,la sua furbizia andava contro i suoi ideali.Intanto quella vecchia stronza urlava la sua vendetta sulla menopausa,e a lui sopra di lei gli rimbobava nella testa tutto il suo odio,il suo rancore celato fino ad allora da due maschere.Fu un'esplosione,la testa in tilt,troppi pensieri,e lei più urlava più lui perdeva il controllo,lei godeva e lui piangeva lacrime enormi,pesanti,dure come grandine,lacrime di una vita ingiusta,malata,di un'esistenza segnata dalla nascita,di un riscatto che non potrà mai arrivare,di uno sfruttamento ripetuto nella storia ed in luoghi diversi,di un passato di un presente e di un futuro tutto nero,come la sua pelle,come la sua anima,come il suo orgoglio.Lei urlava troppo e le sue urla gli trafiggevano il cervello,non poteva più sopportare,lui non riusciva a fermare il suo corpo spinto dalla forza della disperazione,ma doveva zittirla,doveva stare zitta,non poteva più sopportare e tappandole la bocca la vecchia dignitosamente non urlò più,non parlò più,non respirò più...

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