mercoledì 16 gennaio 2008

Numero di Gennaio


VIAGGIO NELLA MUSICA di Daniele Silvestri




Un rumore di due motosega del falegname in fondo al viale disturba la mia lettura, accompagnato da una stazione radio neomelodica della ragazza dell’ultimo piano che, abitualmente, sintonizza mentre si accinge a fare servizi di casa.
La mia mente viene così incuriosita da cosa stia mai tagliando “Geppetto”, che mi accingo verso il suo capannone.
Ogni passo è un pensiero…
Un nuovo Pinocchio è stata la mia prima supposizione, con il naso rotondo e braccia più lunghe, o magari un set di mobili in stile contemporaneo per una villetta estiva. Fatto sta che, inconsapevolmente, mi trovo davanti alla porta della falegnameria impaziente di soddisfare la mia curiosità.
E’ stranamente socchiusa, ed il rumore insopportabile.
Entro con passo quasi furtivo per non destare sorpresa ad Aldo, che magari nel rimanere sorpreso sbagli il taglio del naso di Pinocchio.
Ma, affacciando appena la testa, la mia visuale ricade sul tavolo da lavoro, dove penzola un braccio apparentemente morto.
La curiosità mi pervade. Non essendo stato notato, allungo il collo e, con pieno stupore, assisto ad una scena che già so che sarà, per me, indimenticabile.
Aldo e il giovane Pino stanno tagliando un’entrata per un’enorme astronave grigia. Le scintille escono a spruzzi dal metallo simulando una piccola pioggia di stelle cadenti.
L’indecisione di tornare indietro mi ferma il passo verso il corpo morto, ma viene rimesso in moto dalla voglia di sapere.
Mi avvicino al tavolo da lavoro con indifferenza favorita dalle spalle dei due che sono più che presi dalla loro missione.
Sembra una donna. Ha i capelli biondi, un foro al centro della fronte, e due seni con dei capezzoli somiglianti ad una retina metallica …
Un attimo! Un foro al centro della fronte? Le prime domande che mi pongo, quasi istantanee, sono se sia un essere umano, ma soprattutto cosa ci fa’ con un buco in mezzo alla fronte?
Mi giro verso i due falegnami con un’espressione di sospetto e stupore allo stesso tempo, ma loro non sono più a segare.
La paura cerca di prendere il sopravvento sulle numerose sensazioni che sto affrontando, ma la placo facendo una panoramica di 360 gradi del posto, e, presa visione che nessuno mi sta minacciando con una motosega elettrica, decido di andare a vedere quel mezzo di trasporto.
Abitacolo rotondeggiante sorretto da 4 enormi braccia meccaniche che fungono da “zampe” per reggerlo a terra. Non una finestra, né una porta.
Ma cosa, allora, segavano i due?
- Come diavolo si entra? - mi sono domandato.
Ma il mio cervello mi ha risposto con una seconda domanda:
- Dove sono finiti quei due?- E, soprattutto, - quella persona che sta stesa su quel tavolo da lavoro, chi l’ha uccisa? - .
- Ma sarà deceduta? -.
Devo accertarmi che sia morta, altrimenti potrei trovarmi con dei sensi di colpa per un mancato soccorso.
Lascio perdere quell’enorme giocattolo per stuzzicare la pelle nuda di quella donna.
Le tasto i fianchi con un giravite trovato lì vicino, ma non vedo cenni di risposta. Faccio un secondo tentativo scuotendola un po’, e la mia attenzione ricade su quel foro. Guardandolo bene non è un colpo di pistola, e neppure una ferita da taglio. Oddio! Osservandolo molto da vicino somiglia all’entrata per un jack di una chitarra.
Qualcosa non quadra. Credo sia arrivato il momento di chiedere spiegazioni ad Aldo.
Ma dov’è finito?
Salgo nell’ufficio all’interno del capannone, ma anche lì non c’è ombra di essere umano.
Mi affaccio alla finestra della piccola stanza, da dove posso vedere meglio quel pezzo di metallo “mastodontico ora che lo guardo bene”.
Effettivamente ha una grandezza allucinante. Ma come avranno fatto a portarlo qua dentro? Lo avranno portato, o ci sarà piombato dal cielo? E se l’hanno portato, da dove lo avranno preso?
Non vedo segni di macerie. Sarà stato trascinato sicuramente.
Ma la donna sarà uscita dal pezzo di metallo? Ma è una donna?
Ridiscendo giù per accettarmi che quel corpo sia umano, ma le credenziali ormai sono poche.
Nello scendere le scale mi soffermo a sentire il rumore dei miei passi a ogni discesa di scalino.
Riflettendo, è ormai un pezzo che sono nel silenzio più totale.
Faccio cadere la mia attenzione sui rumori del silenzio: quelli impercettibili quando sovrastati da quelli più forti.
Un ronzio? Forse no. Ma è un ronzio. Sì, un ronzio di corrente.
Proviene da quella “cosa” stesa. Sì, proviene proprio da lì.
Ma allora è un robot?
Astronave metallica, robot rotto: qui la cosa si fa interessante.
Ma spesso conoscere misteri è piuttosto pericoloso.
Meglio andare.
Riguardo un’ultima volta il cyborg, poi, seguendo con lo sguardo un lungo filo che raggiunge l’astronave, …
Un filo che dall’astronave raggiunge il robot.
Foro e filo, astronave e robot: 1 + 1 …
Adoro il mio cervello quando fa 1 + 1!
Guardo l’estremità del cavo vicino al tavolo da lavoro, e guarda caso, ha proprio la forma di un jack.
Lo inserisco nella cavità sita al centro della fronte. Il cuore inizia ad aumentare i battiti. L’emozione sale. Sono sicuro che adesso…
Niente! Non è successo proprio niente.
Come è possibile! Mi aspettavo almeno che l’astronave si aprisse, o addirittura la “cosa” si svegliasse (almeno adesso avrei avuto con chi interloquire), qualcuno che mi spiegasse cosa stia succedendo.
Un giorno entro nella falegnameria vicino casa ed assisto ad un mistero, e nel momento della svolta, niente succede!
Demordo dall’investigazione, ed esco dal capannone.
Per strada non c’è nessuno: strano!
Già, dimentico che abito in un posto isolato.
Un accenno di delusione mi intristisce i passi lenti, accompagnati da un rumore di reattore d’aereo che nasce.
Sale dal nulla fino a prendere una tonalità che supera di gran lunga il fastidio di quello delle motosega.
Aldo e Pino hanno ripreso a lavorare.
Un attimo! Ma questo rumore…
Proviene dal capannone.
Vabbè è abbastanza grande per farvi entrare sia un aereo che un…
Si è accesa l’astronave! Oddio gli alieni! Ora mi fanno fuori per primo!
Ma la curiosità prevale nuovamente su sensi e pensieri.
Riapro la porta, e, di sorpresa, vengo violentemente preso sia da destra, che da sinistra.
Saranno i due segaioli.
Ma che fa Pino? Ma non ha più i capelli?
Mi giro verso Aldo per chiedergli spiegazioni, ma ci metto pochi attimi a mettere a fuoco.
Non sono i due falegnami.
A breve smetterò di vivere, mi sa.
Mi portano al cospetto della donna robot, che con mio grande stupore ha gli occhi aperti. Ma la cosa ancora più stupefacente è che un occhio è un led verde, l’altro è nero senza pupilla.
Il motore dell’astronave diminuisce i giri, permettendomi di sentire lo stridulo suono proveniente dai capezzoli. Un rumore simile a quello della radio quando non sintonizza bene la stazione.
Uno dei due soldati va a controllare il jack.
Sarà difettoso, penso.
Difatti sì, perché, appena sistemato, finalmente si riesce a distinguere la voce del cyborg.
Parla per quasi mezz’ora.
Poi i due si incamminano verso l’astronave, che adesso è aperta, ed io, congedandomi dalla “Musa”, li seguo.
Piccolissima dentro. Mi aspettavo più confort e optional. E’ un astronave, cazzo!
Siedo anche io in sala di pilotaggio, nel posto alle spalle di quello del comandante.
Due segaioli che pilotano un astronave! Arriverò mai a destinazione? …
Ripenso agli ordini che mi sono stati dati.
Il robot, che mi ha detto di chiamarsi Musica, mi ha assegnato una missione. Devo radunare un esercito per guidarlo contro il “popolo dei seduti”.
A disposizione avrò una bacchetta magica, in legno, (belle aspettative per andare in guerra!) con la quale dovrò reclutare i migliori combattenti dei vari popoli per lo scontro finale.
Non so perché ho accettato, ma il suo modo di parlare è stato ipnotico e convincente.
La prima tappa è il popolo degli “uomini con la motosega”. Non so se sono su di un altro pianeta o sempre sul mio, fatto sta che un paesaggio del genere non l’ho mai visto.
Vivono sulla sponda di un enorme fiume. Alle spalle del villaggio una foresta di pini, mastodontica in lontananza, e sempre più disboscata man mano che ci si avvicina alle case.
La popolazione è divisa in due tribù mi dice il capo di quella in cui mi trovo.
Grandi corde e piccole corde.
Vivono in pace, ognuna sulla rispettiva riva del fiume Rif…
Somigliano tutti ai due piloti, senza capelli e una motosega sempre in mano.
L’uomo con cui parlo è una montagna, non un uomo. E’ cosi grande che lo chiamano “il Vasto”.
Lui già sapeva di me, ed aveva dato precedentemente la disponibilità per la grande guerra.
Però mi dice che non è riuscito a convincere l’altra tribù, e che l’unico modo per farlo è di usare “la bacchetta”.
Già…. Ma non ho ancora la bacchetta.
Mi dice che la mia temibile arma è sita in fondo al fiume, illuminandomi poi, sulla sua profondità abissale e che, per toccare il fondo, sarei dovuto scendere con un masso legato al piede. Una volta trovata, mi avrebbe riportato in superficie.
Secondo me, questo è pazzo! Devo affidare la mia vita ad una bacchetta di legno?
Demordo in principio. Sventolo bandiera bianca subito. Riportatemi a casa!
Ripensandoci, questa gente crede in me.
Al piede mi legano un macigno, non un sasso! Siete matti, se muoio col cavolo che vincete ‘sta guerra!
Prendo fiato, mi tuffo, e dopo pochi secondi il masso entra in acqua guidandomi velocemente verso il fondo.
Evito movimenti per non sprecare fiato.
Ma quando arrivo sul fondo? mi chiedo.
- Non devo andare in panico, quello si nutre di ossigeno! -
Tranquillo, ecco il fondo.
Mhm non vedo bacchette magiche.
Il mio sguardo è segugio, ma non abbastanza da fiutare il tesoro.
Un attimo! Qualcosa si muove. Un pesce triangolare, particolare, a tratti spettacolare, viene verso di me.
Stringe un ramoscello tra le labbra.
Ma che strano posto: i pesci mangiano legno…Legno!
E’ proprio la bacchetta!
Gliela sfilo di bocca.
Sono salvo… Giusto in tempo, iniziavo ad andare in debito di ossigeno.
Rif, riportami su, ho pensato. Ma nulla si è mosso.
L’ossigeno ormai è finito, non c’è l’ho fatta.
Maledetta Musica! Peccato che sei cyborg, se no ti avrei aspettato all’altro mondo e picchiato con questa bacchetta per l’eternità!
Il mio corpo si contrae con violenza sempre più accentuata, le mani e le gambe si scuotono con movimenti armonici, poi svengo.
Mi risveglia il rumore di un ruscello.
Sono morto?
Apro gli occhi e mi ritrovo dall’altra parte della sponda.
Attorno a me uomini più minuti ma sempre “segaioli”
Accerchiato da una banda di cavernicoli con dei motosega in mano, non so se devo avere paura, o sentirmi sicuro di avere alle spalle dei componenti cosi “grezzi”.
Mi conducono dal capo tribù. Un uomo esattamente l’opposto del Vasto.
Gli porgo la mano con cui reggo la bacchetta in segno di saluto; ma lui spaventato si allontana da me.
Già dimentico di avere il Santo Graal tra le mani…
Come lo convinco a fare una guerra a questo? Sarà anche che il nemico dal nome “il popolo dei seduti” non credo debba avere queste grandi qualità belliche, ma se hanno paura di un pezzo di legno, figurati di gente accomodata.
Ma loro credono in me.
Dico di essere un potente mago, eletto dalla dea Musica, il quale viene da terre molto lontane per guidarli in guerra.
Poco credibile, non sono cavernicoli come credevo.
Mi tocca far funzionare sta bacchetta.
Anzi no!
Avanzo un secondo tentativo di persuasione regalando la bacchetta al capo “delle grandi corde”, che rimanendo colpito dall’invito, non accetta. Però mi spiega che essa ha infiniti poteri, datigli dalla dea della Musica. Solo l’eletto potrebbe farla funzionare, agitandola armonicamente verso qualunque oggetto sia stato incantato dalla “critica”.
Hai capito a “Geppetto”…Apparentemente cavernicolo, ma di grande cultura dentro!
E adesso con che cosa la testo? Vediamo…mhm.
Trovato! La punto verso la motosega dello stesso, e, con enorme stupore, la metto in moto. Cosi, immediatamente dopo, le accendo tutte. Una volta capito come funziona, diventa divertente!
Ma il rumore assordante.
Mi basta tirar indietro la bacchetta per ottenere un po’ di silenzio.
Il capo tribù si avvicina a me e, stringendomi la mano, mi da la disponibilità per il grande scontro. Aggiunge, poi, chele loro armi sono tornate a funzionare.
Dico loro di seguirmi dall’altra parte della sponda, ed unirsi agli altri segaioli. Un coro all’unisono mi risponde: “ Sì! Maestro!”.
Sono il prescelto! Potevano chiamarmi almeno Daniele l’impavido! O, magari, Dragone il sanguinario!
Vabbè, credono sempre in me.
Si, ma ora mi trovo di fronte al fiume: speriamo che la bacchetta abbia poteri simili a quelli del bastone di Mosè!
Egualmente punto la bacchetta sul fiume Rif, e muovo armonicamente la bacchetta. Dal suo letto emergono miliardi di corde una accanto all’altra, alternate in sequenza: “una grande e una piccola”.
Salvato da delle corde, e chi se lo sarebbe mai immaginato!
Disincanto anche le armi della tribù del Vasto e lascio l’organizzazione ai due capi, incitandoli a dover stare sul teatro di battaglia al calar del sole, non più tardi.
Poco dopo prendo l’astronave che ormai padroneggio come fosse un automobile (Facile con il pilota automatico!).
Le coordinate sono già registrate. La prossima meta è a scelta tra “il mondo sotterraneo”, “i paesi dell’est”, i boschi delle “valkirie”, o “le grandi montagne”.
Ora che so utilizzare la bacchetta uno vale l’altro. Pigio il tasto “random” facendo scegliere al computer di bordo.
Mi autopilota fin sulle montagne.
Gli abitanti, vedendo la nave, mi organizzano una festa di benvenuto.
Siedo al tavolo con l’elite di questa strana popolazione.
Non sono grossi come i precedenti ma tutti, anche le donne, hanno muscoli delle braccia molto sviluppati.
Ne approfitto per racimolare qualche ulteriore informazione, chiedendo al loro capo chi sia il popolo dei seduti, e perché vada sconfitto.
La risposta mi spiazza totalmente. Come può mai recare danno un potere chiamato “Critica”?
- Può bloccare le nostre armi - mi viene risposto.
Si allenano tutta un’era, perfezionando le loro tecniche di guerra per poi usarle contro il nemico.
Una vita sofferta, per pochi attimi di gloria. Grandi persone. Devo dire che inizia a stami a cuore questa battaglia.
Devo sbloccare anche le loro di armi.
Vengo condotto in una conca formatasi tra due montagne. Nel suo interno una innumerevole quantità di massi di varia grandezza.
Con un colpo di bacchetta li rendo tutti più leggeri e in seguito li faccio levitare, fino a riempire la stiva della navicella.
Faccio presente ai nuovi componenti della ciurma l’appuntamento e volo via verso nuovi orizzonti. Si va verso est!
Inizia a piacermi questo gioco. Tutti credono in te e nella tua arma temeraria. Quasi quasi ne traggo qualche vantaggio. Sì! Direi proprio di sì. Eletti lo si è una volta sola nella vita e non capita a tutti.
Il viaggio sembra durare più del previsto, quindi mi prendo questo attimo per riflettere.
Mi chiedo, ma che potere potrà mai avere su di me la “critica”?
Una voce fuoricampo si intromette nei miei pensieri dandomi come risposta : “autostima”.
Chi sei? Penso di chiederle.
Questa voce la conosco, è Musica!
La mia musa mi dice nuove parole : “Attento alla strada”
Ma cosa…
Due enormi statue sono proprio di fronte a me. Entrambe raffiguranti un enorme uomo che suona un corno che arriva fino a terra.
L’astronave scende in picchiata verso il basso, infilandosi nella cavità finale del corno di destra. Poi, percorrendolo tutto, mi ritrovo al cospetto dei miei nuovi reclutandi.
Chissà questi che tipi di armi usano.
Questo popolo ha corporatura più minuta rispetto agli altri due che ho incontrato fin ora.
Avranno sicuramente un armamentario pericoloso!
Dei corni! – Che cosa credete di fare con dei corni? - Andiamo in guerra, mica in piazza a suonare!
Mi limito a dimostrare di essere l’eletto. Persone molto riservate, meglio fare il mio dovere e andare.
Parto poco dopo aver mostrato sulla mappa il luogo dell’incontro.
Stavolta scelgo io la meta: il bosco delle valkirie. Almeno ne ricavo la visione di qualche bella donna!
Se se…, con la fortuna che mi ritrovo, saranno sicuramente tutte….
Alte, snelle e svestite. Nude! Delle ninfee a tutti gli effetti!
Credo proprio che qui farò soggiorno per un bel po’. Ecco a voi l’eletto “care”, accoglietelo con petali di rosa e bagno caldo.
Un colpo alla testa mi riporta con i piedi per terra. Mi sono incantato a guardare i seni della signora delle valkirie. Un arco, di giusta conseguenza, mi ha colpito per farmi distogliere lo sguardo.
Sono l’eletto! Come si è permessa. Ora la trasformo in rospo!
Lei crede in me, non posso farlo…
Certo che vivono proprio bene in questo bosco. Cinguettio di uccelli, nessun rumore. Tutte donne arciere. Queste faranno proprio la seconda fila, e daranno inizio all’attacco dalla distanza, per poi mandare la fanteria con i motosega.
Ma non ci perdiamo in futilità, passiamo a liberare i loro archi. Anche se, dopo quel colpo ben assestato, devo dire che sembrano funzionare già bene!
Nulla accade. N fanno niente di particolare.
Dalle loro facce deduco che niente è successo.
Le frecce, giusto! Ma mica posso “creare”, io posso solo risvegliare. E adesso? Adesso che si fa?
Figurati se ora delle puelle si mettono a tagliare legna per dar vita a delle frecce.
Ma io non posso fermarmi troppo a lungo, ho ancora il mondo sotterraneo da raggiungere ed il sole sta per calare.
Bene. Bisogna pensare. Forza cervello. 1+1! Ce la puoi fare.
Mhm…Ecco!
Senza dire una parola riparto con l’astronave. Torno dai segaioli, ne prendo una manciata, poi faccio tappa sulle montagne e ne prendo qualcuno anche da lì, e in breve sono di nuovo dalle mie signore.
Sarà anche povera di accessori ed optional, ma devo dire che codesto mezzo “sfarfalla” che è una bellezza.
Bene. I segaioli a segare, gli uomini delle rocce a fare punte alle frecce, e le valchirie con me!
Boom! E siamo a due! Allora che le donne rimangano a supervisionare gli uomini.
Ma quanto tempo mi rimane? Già. La battaglia avrà luogo nella prima serata del giorno che corre.
Il buio calerà a breve.
Il mondo sotterraneo. E meglio che non mi facciano perder tempo, altrimenti gli faccio fare i kamikaze d’impatto!
Sembra di andare a caccia senza fucile! Il più grasso di loro peserà al massimo 30 kili!
Non ho tempo per disperarmi, devo agire in fretta!
La disperazione fa soffermare le scelte su tutt’altro che il nocciolo del problema.
Cosa dovevo fare? Ah si…
Ragni? Le loro mani sono dei ragni.
Sono aracnofobico! Non sopporto questi insetti.
I loro arti superiori sono le armi che useranno.
Ciò significa risvegliare...
Devo, loro credono in me!
Nonostante non apprezzo il loro arsenale bellico, devo farli partecipare alla guerra. Faranno la loro parte.
Punto la bacchetta verso le loro mani e chiudo gli occhi per non assistere all’evento,quando sento una voce sussurrare delle parole…
“Maestro, Maestro!”
Apro gli occhi.
Una semplice lampadina illumina tutto ciò che viene rispecchiato dallo specchio sottostante a lei.
Dove sono? Chi è questo vestito come un pinguino?
I nemici mi hanno catturato?
Ma ho ancora la bacchetta in mano!
“Il sipario sta per aprirsi, e lei deve ancora decidere se far suonare le tastiere nell’orchestra. Deve farcelo sapere”.
Gia le tastiere. “Che partecipino alla prima serata”.
Il pubblico si è accomodato ed aspetta in silenzio.
Il sipario si apre, e la battaglia ha inizio.
Nonostante è la mia prima volta che combatto da Maestro, mi sento sicuro, protetto.
La mia musa mi guida la mano armonizzandola nei movimenti.
Non ho paura di essere sconfitto, perchè basta una semplice bacchetta per sconfiggere il potere di una critica.

CERCAMI IL CUORE di Michele Ortore


Correva claudicante per il corridoio: il ginocchio si era gonfiato fino a diventare due volte più del normale, non riusciva più ad appoggiare la gamba. L’ultimo salto era stato troppo violento.
Aprì la prima porta a sinistra e si infilò nel buio della stanza senza guardarsi alle spalle. Aveva almeno dieci minuti, prima che Sword lo potesse raggiungere, così si lasciò scivolare con la schiena lungo la parete e si accucciò in un angolo. Il ginocchio aveva bisogno di riposo, o non ce l’avrebbe fatta a reggere ulteriormente la fuga. Stava scappando da almeno due ore ed il suo inseguitore non dava cenni di fatica, com’è ovvio che fosse per uno come lui.
Kal Amaf militava nei ribelli da almeno dieci anni. La resistenza era iniziata vent’anni prima, ma la guerra civile sembrava destinata a durare ancora a lungo. Aveva smontato il suo M16 per pulirlo dai detriti, quando da una duna in lontananza era spuntata una sagoma che conosceva bene. Dopo essere salito sulla sua jeep, aveva tenuto a distanza il predatore per almeno un’ora e mezza, prima che finisse la benzina. Era stato costretto a gettarsi da un piccolo dirupo ed ora si trovava in quel vecchio prefabbricato in disuso.
Sentì un frastuono di lamiere dal di fuori. Si alzò frettolosamente: aveva sbagliato i calcoli. Tornò nel corridoio e cercò di rovesciare più ostacoli possibili sul pavimento: un armadio, due tavoli, alcune sedie. Giunse al termine del corridoio e girò a destra. Si trovava in una specie di laboratorio, c’erano degli alambicchi su un piano di mattonelle opache: forse il prefabbricato era stato un’impresa chimica, o qualcosa del genere. Notò degli scaffali in fondo al locale ed iniziò a frugare tra gli scompartimenti, in cerca di qualsiasi cosa potesse essere usata come strumento difensivo. Trovò una fiala d’acido, mentre in uno dei cassetti c’era nitroglicerina in abbondanza. Doveva spostarsi da quella stanza, o un colpo a vuoto avrebbe potuto far saltare l’intera costruzione. Mise in tasca l’acido e si diresse verso l’altra porta. Mentre stava per aprirla, sentì il fragore del cancello d’ingresso che veniva sfondato. Era arrivato.
Nei pensieri di Kal Amaf baluginò l’immagine degli occhi di Sword. Ancora non li vedeva, ma già sentiva sulla pelle il brivido dei riflessi rossi delle sue pupille, vermigli come il sole nel deserto, eppure così algidi e deprimenti. La sola possibilità per sopravvivergli era fuggire: se non ci riuscivi, gli bastavano pochi millesimi per squarciarti il cuore con la pistola elettronica.
La maniglia non funzionava. Nel corridoio Sword stava muovendo i primi passi e probabilmente era stato bloccato dai tavoli, a giudicare dallo stridore del ferro sul pavimento. Kal Amaf prese un po’ di rincorsa e riuscì a sfondare la porta. Nello slancio appoggiò il ginocchio dolorante, rotolò a terra ed emise uno stridulo urlo di dolore: non aveva importanza far notare la propria presenza, Sword era dotato di sensori termici ed assolutamente insensibile alle onde sonore. All’interno la penombra impediva di capire dove si trovasse. Tastò con una mano la parete, fino a trovare l’interruttore della luce: il neon sul soffitto illuminò un largo piano opaco, che si estendeva per tutta la superficie laterale della stanza. Al centro, c’erano quattro grosse celle metalliche, che assomigliavano a dei frigoriferi. Ne aprì una, e fu investito dall’ondata gelida che ne proveniva: era assurdo, nella nazione l’elettricità veniva razionata e stillata da quasi cinque anni, e lì, in mezzo al deserto, una fabbrica chimica in disuso poteva permettersi quattro frigoriferi a pieno regime. Forse doveva esserci qualche alimentatore autonomo, ma non era il caso di controllare. Uno, due, tre tonfi metallici lo fecero rabbrividire. Stava per arrivare. La stanza era senza uscite, nessuna finestra, solo il pallore dell’aria e del neon. Perse la calma che aveva cercato di mantenere fino ad allora. Un altro rumore dal corridoio, secco, e poi tanti piccoli costanti passi. Passi di ferro.
I modelli Sword erano stati creati nel 2006. Inizialmente si trattava di automi radiocomandati, usati per lo più per la bonifica di campi minati, ma una società privata ne brevettò una nuova versione, armata di due M249, che poteva essere comandata da un esperto fino ad un chilometro di distanza. I robot si diffusero velocemente nelle guerre economicamente più impegnative, come quella nel paese di Kal Amaf. I politici incentivarono la crescita di questi armamenti, che evitavano il sacrificio di soldati umani, e rendevano i conflitti più accettabili per l’opinione pubblica. Anche tra le persone comuni l’idiosincrasia per la guerra scemò velocemente: nel momento in cui il sangue di un simile veniva versato dal braccio di silicio di uno Sword e non da un essere umano, il senso di colpa per quella morte lasciava spazio a una mera ombra di dispiacere. Grazie agli incentivi governativi gli Sword erano stati perfezionati fino a diventare autonomi: divennero in grado di individuare il nemico grazie ai sensori termici e di fulminarlo con gli armamenti robotici.
Il corridoio risuonava periodicamente sotto i colpi degli stivali di ferro: il robot era arrivato quasi davanti alla porta, e Kal pensò che l’elaboratore all’interno del cuore di alluminio stava già ordinando alle dita meccaniche di abbassare la maniglia. Chiuse a chiave la porta, tirò fuori dalla tasca la fiala di acido, e lo versò sulla serratura: i perni ed i rotori si sciolsero velocemente in una poltiglia grigiastra: ora aveva un po’ di tempo in più. Ma a cosa serviva? L’istinto di sopravvivenza ritardava il momento fatale, ma non poteva prenderlo in giro: era in trappola, senza uscita, sarebbe stato dilaniato da un fottuto ammasso di latta.
Sword stava indietreggiando. L’elaboratore aveva deciso di sfondare la porta.
Kal Amaf chiuse gli occhi, e pensò. Stava per morire, ma pensò, ricordò degli studi all’università e di quel tale che era sicuro che cogito ergo sum, e si disse che sì io voglio essere, essere fino alla fine, fino all’oscurità, essere sempre, essere a prescindere da cosa significhi essere.
E così continuò a pensare, mentre la paura scivolava via come gocce su edera. Essere ammazzati da una creatura non vivente è la tortura più crudele mai inventata. Nella guerra “umana”, anche nei momenti più strazianti e farneticanti, c’era sempre un paio di occhi da guardare: potevano anche contenere solo odio, pazzia, vacuità, ma nel momento in cui ti davano la morte sapevi che era qualcosa di sensibile a condannarti. Fino a sentire il proiettile che ti lacerava la carne, speravi in un miracolo, e fissavi quegli occhi, con speranza o rabbia o ardore. Morivi sapendo di aver comunicato, e non importava se il tuo assassino avesse recepito o no, importava solo che potenzialmente avrebbe potuto farlo, e magari pentirsi, migliorare. Nulla è tanto arido quanto dire addio alla vita di fronte a due led rossi: arrivano, e sai già di non avere scampo, di non poter nemmeno urlare. I robot sono ferraglia, mera materia: quando arrivano ad uccidere un uomo, anche la nostra carne diventa materia. E’ come morire di freddo, o di fame, è un’implosione che svilisce qualsiasi speranza di umanità. La pistola degli Sword individua il bersaglio umano e lo insegue fino a sparargli esattamente al cuore: il colpo è letale nel cento per cento dei casi. Se mai uno Sword sbagliasse mira, basterebbero cinque secondi per ricaricare l’arma.
La mia sarà una morte di plastica, sarò plastica, pensò Kal mentre l’androide sfondava la porta.

Nel silenzio, lo Sword mosse i tendini artificiali del collo. Fece due passi all’interno della stanza. I sensori termici emettevano periodici segnali sonori, stavano cercando di focalizzare l’obiettivo. Passò qualche minuto. Non sembrava dovesse succedere nulla.
All’interno di uno dei frigoriferi, Kal Amaf cercava di respirare il meno possibile. La bassa temperatura del frigo aveva impedito ai sensori di riconoscerlo, ma sarebbe bastata una variazione calorica appena più percettibile per attivarli. Non credeva che avrebbe funzionato, quando si era chiuso lì dentro: gli Sword individuano sbalzi termici anche minimi, ma forse quel frigorifero era talmente potente da raggiungere una temperatura fuori scala per i recettori dell’androide. Accanto a Kal c’era un contenitore di ampolle. Allungò cautamente il braccio per sfiorarlo, e fu costretto a trattenere un singulto d’angoscia: non riusciva più a muovere le dita, erano già completamente assiderate. Era ovvio: il robot non riusciva a percepire quella temperatura solo perché un uomo non sarebbe stato capace di sopportarla per più di un paio di minuti. Lo Sword era programmato per inseguire la preda fino a cinque ore consecutive: non aveva scampo, poteva solo scegliere come andarsene all’altro mondo. A cubetti di ghiaccio, oppure ridotto a brughiera da una squallida ferraglia?
In tasca aveva una piccola pistola, che teneva sempre con sé come ultima difesa. Sarebbe stato inutile tentare di usarla contro il robot: un calcolo aveva sancito che i riflessi umani fossero cento volte più lenti di quelli robotici. Non riusciva a muovere bene nemmeno il piede, ora.


Fuori c’è lui non si muoverà bastardo non farà un passo, ha capito che sono qui dentro, vuole che mi lasci morire così qui come un insetto un pezzo di carne da macello. Che faccio diavolo che faccio, sono un uomo, PERCHÉ NON LO SAPETE?, perché devo lottare per essere uomo?, ma eccoti qui, va bene aspettami, arrivo, sarò tuo tuo. Urlerò e ti prenderai il mio cuore, robot del cazzo, prenditelo e non tormentarmi più e non so come tu faccia a trovarlo sempre, precisamente, il cuore di noi persone, c’è gente che se lo cerca per una vita intera, il cuore, e voi lo trovate subito all’istante, e invece che custodirlo come una gemma rara lo spazzate via, e basta, non rimane niente, solo plastica, plastica come tutto, e come fate bastardi, ditemi almeno come fate a trovarl…

Kal Amaf decise che valeva la pena provarci. Aprì lo sportello del frigo, e tirò velocemente fuori la mano destra. Mentre il robot si precipitava di fronte a lui, pregò il suo dio che il sangue si sbrigasse a scorrere nelle dita, a ridargli calore. Lo Sword era a pochi passi da lui, non ebbe il tempo di guardare i led rossi che Kal sentì un colpo veloce, ed un dolore indescrivibile al petto. Urlò fin quasi a rompersi le corde vocali, e si concentrò sul dolore, e sorrise nel dolore sorrise, era a sinistra, nel petto ma a sinistra, provò a muovere le dita, contava i secondi, uno due, le dita si mossero, strinsero la pistola, tre, mirò il petto del robot, quattro, l’elaboratore era lì doveva essere lì doveva, cinque, sparò.

Mentre l’androide crollava a terra, Kal iniziò a ridere. Il suo sangue scorreva vicino alle mani poggiate sul pavimento, gli sporcava la guancia. Si distese supino. Respirava lentamente, ma a ritmo costante. Mentre chiudeva gli occhi, pensava a sua nonna, a quella vecchina morta a centosedici anni, con il cuore a destra ed il fegato a sinistra. Gli scienziati l’avevano studiata per anni, senza riuscirsi a spiegare come il suo organismo fosse così funzionale nonostante quella rarissima atipicità. Lui non era stato messo sotto osservazione, ma solo perché era scappato dai medici tediosi per dedicarsi alla lotta armata. Anche il suo cuore aveva deciso di nascere un po’ più in là, e questo i robot non l’avrebbero mai potuto sapere, né allora né in futuro: era difficile distinguere il segnale elettrico cardiaco da quello degli altri tessuti muscolari. La tecnica che usavano per mirare al cuore, era probabilmente quella di misurare le proporzioni somatiche, e calcolare di conseguenza la locazione cardiaca. Che è a sinistra, normalmente.
Gli androidi ed il cinismo dei loro creatori avevano previsto tutto, tranne il minuscolo splendore delle eccezioni.
Kal Amaf rimase lì disteso, guardando il neon, ed in quel soffitto bianco vedeva i suoi compagni che lo cercavano per le dune di sabbia, e l’avrebbero trovato, sì l’avrebbero fatto, ma in fondo nemmeno importava, perché lui era felice ed in quel deserto la meraviglia del caso aveva vinto ancora una volta sull’ipocrisia della previsione, solo un uomo, un uomo s’era salvato, ma in lui il mondo, l’alba ed i raggi riflessi dall’onda, e arriveranno i miei amici sì vivrò e


Gli Swords sono costruiti dalla società americana Foster-Miller (controllata dal ministero inglese della Difesa e dal gruppo Carlyle) per conto del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Secondo il Dipartimento Usa sono pronti per entrare in attività in Iraq. Del tutto autonoma è la pistola robotica della US Mechatronics che individua e segue un bersaglio umano fino a sparargli nel cuore.

Da Newton, n6, Giugno 2006




LA VITA MODERNA di Giovanni Giuliano




Non so cosa fare della mia vita: se seguire l’ideale di scrivere per passione,per comunicare ed esternare sillogismi astratti.La vita pone delle scelte da prendere, strade divelte da percorrere,manifestazioni politiche a cui partecipare, la piemontesità si trasmette nel porre orecchio da mercante ai buoni consigli di viaggiare.L’aeroporto di Levaldigi è il perno dello sviluppo, fantasioso edificio costruito come un piccolo grattacielo:New York in miniatura.
I viaggi promozionali servono a rendere “uomo di mondo” il Cuneese.
L’uomo esistenziale, il razionale, l’uomo che girovaga per Cuneo: città assediata e un po’ chiusa, ma città che vuole integrarsi con il resto del mondo.Nella fase adolescenziale è fragile, alla ricerca di affetti,del primo incontro con esseri umani dell’altro sesso, adesso si chatta o si manda un SMS: c’è la superficialità delle cose e delle idee: cose banali che servono ad uscire dalla routine quotidiana.Voglio essere cittadino del mondo, per entrare in contatto con nuovi esseri: gli Uomini.Per comunicare, per fare un travaso di idee, una polarizzazione di idee.
Con Internet non ho confini: posso comunicare con il mondo intero, c’è una concentrazione di conoscenze che non ha pari nelle civiltà del passato.
E’ sera, Johnny prende la Panda e parte per Torino per gustare, assaporare le Olimpiadi Invernali: manifestazione planetaria, combinazione di marketing e comunicazione.
Mentre percorre le tortuose strade della valle ascolta l’ultimo cd di Elisa: musica inebriante che crea un’atmosfera unica, sinergia tra melodia appassionata ed eccentricità. Lo spazio del gusto non può essere misurato, ma appartiene all’ignoto.
La Panda 4x4 descrive una dolce equazione algebrica, matematica e fisica.Calcolare la velocità di transazione significa che il solo individuo che trasporta è oggetto di sicurezza: airbag e barre antiintrusione sono state posizionate non a caso.
Ma adesso vi parlerò un po’ dei mass-media: delle vie di comunicazione interattive, domani saremo più soli? Boh… forse sì, chatteremo e basta, nel Web cercheremo nuovi amici: persone disposte a scambiare con noi idee e concetti, per farci uscire dalla monotonia quotidiana. Su Internet posso visionare siti scritti in lingua inglese,fantasmagorica visione utopistica. Irrazionale ricerca del cosmo.
Pensiamo spesso che il modo di vivere,di pensare, di soffrire nella nostra società sia l’unico finchè non abbiamo l’occasione di mettere in discussione la nostra scala di valori come ha potuto fare l’uomo maturo, è l’occasione per offrirci qualche ulteriore motivo di riflessione.
La musica.Arte comunicativa che serve a carpire i segreti della vita, ho comprato un cd dei Rem: gruppo straniero di New York.Orecchio musica dolce,riflessiva e anteposta alla cosmica appartenenza al continente americano.Paese dalle mille sfaccettature.
Musica soave e ripetitiva che parla delle contraddizioni della più grande potenza economica del mondo.Contraddizioni che si rifugiano nelle lotte sociali, nelle rivendicazioni salariali.Il futuro con la musica è meno grigio: fuggitivo dialogo fra individui della metropoli americana.Ma noi siamo distanti anni luce dal pensare “Yankee”, forse siamo più italoamericani.
La pubblicità è un’ arte rara, permette il permeare di idee, trasmette una visione eccentrica e centripeta della cosmologia.

DOC di Giancarmine di Matola



Molti tendono a imitare gli altri per paura di tradire le loro strane manie. Molti cercano disperatamente riferimenti nella morale corrente solo per coprire e nascondere le loro vere inclinazioni. Questa negazione dell´io mette in discussione la loro autostima, molti non ne hanno abbastanza oppure è ridotta al lumicino. Ma non è il mio caso. Io ho trovato una dimensione, un equilibrio in ciò che faccio, anche se qualcuno si ostina a volerlo ricondurre a una patologia. Questo è il mio modo di essere ma qualcuno mi chiama disturbato-ossessivo-convulsivo, o più semplicemente Doc. La giornata è assolata, nell´aria c´è qualcosa di primaverile che mi spinge a uscire fuori di casa, io mi preparo per il mio solito giro. Il corso San Giovanni a Teduccio è inondato di luce e io mi sento agitato, devo sbrigarmi, la voglia è forte e devo placarla. M´avvio a grandi passi verso piazza San Giovanni Battista, là inizierà il mio giro e io ho già l´acquolina in bocca. Ecco, finalmente sono arrivato, tutto ora avrà inizio. Li vedo, sono in fila uno dietro l´altro, sono scintillanti e colorati e mi viene una gran voglia di accarezzarli, di toccarli. Inizio con il primo. Afferro dall´alto quella che sembra essere una sfera, è fredda al contatto, ma di un freddo elettrizzante che ti dà la scossa, al tatto sento tutte le imperfezioni del metallo, man mano sento anche gli strati di antiruggine e di vernice al piombo. Ora sento le endorfine prodotte nel lobo intermedio dell´ipofisi e nel nucleo arcuato dell´ipotalamo entrarmi in circolo, l´ho imparato dal neurologo del centro di igiene mentale dell´Asl di Ponticelli, lui dice che è quello che mi accade ogni volta che lo faccio. Ora mi sento rassicurato e tranquillo, ho toccato il mio primo paletto di ferro sul marciapiedi. Avanzo con calma toccando in successione gli altri paletti, lo faccio perché sono un ossessivo o almeno così dice il neurologo dell´Asl, dice che il mio pensiero va sempre a quella scossa che si sprigiona dal contatto coi paletti. D´un tratto cambio marcia, ora li tocco velocemente, sempre più velocemente, questo perché sono un compulsivo, ovviamente me lo ha detto quel fottuto neurologo del centro di igiene, dice che per mantenere alta la produzione di endorfine da parte del sistema nervoso centrale devo toccare i paletti velocemente. Per fortuna non ci sono più andato all´Asl di Ponticelli, non capivano le mie esigenze, per loro ero soltanto un matto come gli altri, uno da curare con la Fluoxetina, il Paroxetin e il Ritanil. Prima il mio giro lo facevo insieme a Enrico, lo conobbi al centro di igiene quando lo frequentavo ancora, Enrico era anche lui un Doc, un ossessivo compulsivo, ma la sua specialità era il toccare i tombini stradali, diceva che il contatto con i coperchi di ghisa, mista al fetore e all´umidità che saliva dalle fogne, lo inebriavano più di droga allucinogena, per lui era meglio del sesso. Anche per me toccare i paletti era sempre stato meglio del sesso, per questo io ed Enrico andammo subito d´accordo. La mattina facevamo il giro insieme, io mi occupavo dei paletti, lui, due metri più avanti, dei tombini, ricordo ancora le sue bestemmie ogni qual volta un´auto parcheggiava sul suo tombino preferito. Poi d´un colpo non lo vidi più, sparì dalla circolazione, neanche all´Asl lo trovai più. Tempo dopo venni a sapere che la sua famiglia l´aveva rinchiuso al Leonardo Bianchi. Un giorno mi telefonò dall´ospedale, mi disse che si trovava benissimo e che c´erano un sacco di tombini di varie forme e dimensioni, fu l´ultima volta che lo sentii. Paletto dopo paletto sono arrivato alla fine del corso San Giovanni, adesso giro per il corso Protopisani, lì i paletti sono più grezzi e mal curati, ma per me sono ugualmente attraenti. Il primo paletto è mancante, qualcuno lo ha sradicato e quei maledetti del Comune ancora non l´hanno sostituito. Inizio a toccare i paletti con più concentrazione, come se il loro stato di abbandono richiedesse un maggior sforzo di comprensione da parte mia, al tatto sento la vernice quasi sparita, al suo posto sento ruggine e sporcizia, ne scaturisce una scintilla diversa ma ugualmente coinvolgente, anche in questo caso il mio corpo mantiene alta la produzione di endorfine. In genere certe bizzarrie non si trasmettono, rimangono casi sporadici nell´ambito familiare, ma non così per me. Lo scoprii per caso da bambino, lo vedevo camminare e abbassarsi continuamente, lo faceva per toccare i copri ruota delle auto parcheggiate, era mio padre, ossessivo-compulsivo prima di me. Lo vedevo dannarsi l´anima per toccare quei copri ruota che all´epoca erano in ferro, diceva che il calore di quei dischi, misto alla puzza dell´impianto frenante, era la migliore medicina per la sua depressione, mia madre faceva finta di niente e anch´io lo ignoravo. Ora è seduto nella sua poltrona di similpelle che fissa la finestra da mattina a sera, spento in viso e senza più volontà, sconfitto dal progresso e dai copri ruota in plastica. Una volta gli chiesi perché odiava così tanto i copri ruota in plastica, lui rispose che non valevano niente, che erano senza cuore e anima, da allora giurai a me stesso che non sarei diventato come lui, ecco perché scelsi i paletti, di certo quelli non finiranno mai. Ora mi trovo a metà del corso Protopisani, in lontananza noto un gruppo di operai che sta demolendo il marciapiedi davanti a me, paletti compresi. Mi avvicino a loro con un groppo in gola. Dalle scritte sulle tute m´accorgo che sono operai dell´acquedotto, stanno cambiando le tubature interrate e per farlo eliminano il marciapiedi. Non c´è niente da fare, i paletti davanti a me sono stati tutti sradicati, da lì non posso più passare, sono come una formica a cui hanno interrotto la fila che stava seguendo, ora sono disorientato e senza riferimenti. Questo, però, non me l´ha spiegato il neurologo dell´Asl, ma l´ho appreso da Piero Angela in una puntata di Quark. Non mi resta che tornare indietro, ripercorrerò a ritroso la strada che avevo fatto. Ma a mia insaputa un secondo gruppo di operai ha iniziato a distruggere il marciapiedi dietro di me, ora avanzano inesorabili dai due lati. Mi avvinghio all´ultimo paletto come a una scialuppa di salvataggio, gli operai non si spiegano il mio atteggiamento, aspettano che io mi sposti da quella zolla d´asfalto per completare l´opera. Difendo quel paletto con le unghia e con i denti, urlo e bestemmio affinché nessuno s´avvicini alla mia isola. Uno degli operai va a parlare con il caposquadra, una volta informato della vicenda l´uomo s´avvicina a me con piglio calmo ma deciso. Il caposquadra è un uomo sulla cinquantina, indossa anche lui una tuta e in mano regge la piantina del sottosuolo e una penna a sfera. L´uomo ha un comportamento strano, schiaccia continuamente il pulsante della penna, lo fa prima in modo casuale poi in modo ritmico, come se quella cadenza gli procurasse una sorta di estasi, rendendolo più calmo e posato. Non c´è dubbio, è anche lui un ossessivo-compulsivo, un Doc. Lo guardo come se lo implorassi, lui annuisce come se capisse, in fin dei conti noi ossessivi-compulsivi ci riconosciamo a vista, e come se fossimo dotati di un sesto senso che permette l´individuazione di un nostro simile. Questo non me l´ha insegnato nessuno, ho creato da solo l´associazione. L´uomo si volta e dà ordine agli operai di rimettere i paletti davanti a me, sono salvo, ora posso completare il mio giro. Prima di allontanarmi ringrazio colui che mi ha offerto quella via d´uscita. Alla fine del corso Protopisani giro per via Alveo artificiale, lì i paletti sono caldi perché baciati dal sole. Mentre li tocco avidamente sento riecheggiare nell´aria il rumore assordante di un martello pneumatico, e sono ancora felice.

H3K4ME3 di Notimetolose





Lo vedo in tv ritirare il premio.
Ha indossato uno smoking.
Devo ammettere che gli sta bene.
Sorride ai fotografi.
La dentiera nuova fa la sua bella figura.
I capelli immacolati gli conferiscono l’aria che la stampa si aspetta da uno scienziato e lui recita la parte alla perfezione.
Alla stampa non interessa conoscere la formula e lui neanche la cita ma racconta della fatica, delle ore insonni, degli studi. Omette il come sia arrivato a presiedere l’ente di ricerca, ma è solo un particolare insignificante che sia il fratello di monsieur le President com’è privo di ogni interesse per i giornalisti sapere che la sua laurea in scienze della comunicazione con specializzazione in "Il cinema anni ‘70", una doccia nel primo tempo, una doccia nel secondo, non ha niente a che vedere con la genetica, con le staminali, con la clonazione terapeutica e con le biotecnologie.
Mi sembra giusto che citi suo padre,buonanima, nei ringraziamenti e si scordi completamente di Lucia, Stefano, Enrico, Francesco, Luca, Elettra, di me e della nostra paga di 500 euro al mese.
Ma come si permette quel giornalista di fargli una domanda tecnica? "Attraverso quali procedimenti si è potuto scoprire che l’H3K4me3 trasporta le istruzioni genetiche in grado di moltiplicare le cellule stesse"? Ma dico è una domanda da fare a lui?
Suda poveretto.
Sbianca.
Cazzo.
E’ sotto attacco.
Ma possibile che tra i tanti luminari presenti non si accorga nessuno?
Preme sul petto.
Casca.
Non lo inquadrano più.
Gente che chiama coi telefonini, che urla, uno ha la commozione negli occhi una signora si tappa la bocca con la mano, ma non uno, non uno, che gli faccia il massaggio cardiaco tra i 16 primari che ho contato alla cerimonia.
Adesso mi aspetto che sia nominato presidente dell’Ente un geometra di Vibo Valentia protetto dall’onorevole Plutino.
Almeno scoprirà perché le condutture del cesso del laboratorio s’intoppano sempre quando le ragazze giurano che non ci hanno mai buttato i loro assorbenti.

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