giovedì 22 novembre 2007

Primo numero




In questo primo numero abbiamo semplicemente raccolto cinque ottimi racconti, di cinque giovani scrittori. Per il futuro ci piacerebbe costruire una vera rivista letteraria, ma vorremmo farlo numero dopo numero, aggiungendo un elemento alla volta e sempre su vostra segnalazione.
Alla fine, se non ci mancherà il vostro aiuto, potremmo ottenere una buona rivista on-line costruita interamente dai suoi lettori. E' una sfida che affrontiamo con entusiasmo, ben consci delle difficoltà, ma fiduciosi nelle energie del nostro (futuro) pubblico.

Per cui forza: leggete e non siate avidi di commenti!




Massimiliano Colucci è nato e vive a Padova, dove ha svolto gli studi universitari. È stato premiato e segnalato in diversi concorsi letterari, tra cui il Campiello Giovani e il Concorso Leoncino d’oro – Rassegna David di Donatello. Alcuni suoi lavori sono presenti su siti, riviste e antologie. Ha partecipato alla realizzazione di spettacoli teatrali. Attualmente collabora col Laboratorio Multidisciplinare di Giovani Artisti Spalancare la Prigione, di Padova, e col settimanale La Difesa del Popolo.



Gianni Solla è nato a Napoli nel 1974 e lavora in un call center. Suoi racconti sono presenti nelle antologie edite da Mondadori Hard Blog (2005), Uniform Sex (2005), Water Sex (2006) e sulle più note riviste underground nazionali (Toilet, Pinokkio, Scrittomisto). Nel 2006 pubblica la raccolta di racconti Seppellitemi con l’accappatoio (RGB). Attualmente collabora con il quotidiano Il Napoli ed è tra i blogger più cliccati in Italia.



Filippo Anniballi è nato a Roma nel 1977. Scrittore, giornalista e traduttore. Collabora con la rivista on-line ccsnews.it. E’ stato pubblicato sul magazine Torazine e suoi racconti sono presenti in diverse antologie.



Emiliano Abundo è nato a Napoli nel 1981. Studia psicologia alla SUN di Napoli. Questo è il suo racconto di esordio.



Claudio Guidi è nato nel 1976. Architetto e blogger.

lunedì 19 novembre 2007

MORTE PER ACQUA di Massimiliano Colucci


«Talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura.»
E. Montale – I limoni.



Morire in una vasca da bagno… Il pensiero lo colse all’improvviso. Gli venne in mente Marat, pugnalato dalla giovane Corday; Seneca, le cui vene sclerosate non ne volevano sapere di gettare sangue; persino Jim Morrison, soffocato nell’overdose di un hotel di Parigi. Chissà quante altre volte nella storia, senza che alcuno lo sapesse, nelle torbide acque di una vasca si erano consumati gli ultimi istanti di un uomo. Eppure, non vi dev’essere luogo più imbarazzante per passare dal mondo, se si eccettuano un paio di altri arredi sanitari.
Annuì nell’immagine che si rifletteva nello specchio. Non c’erano molte sfumature da aggiungere… Colti dalla morte nella più totale ed oscena nudità. Essere già scomparsi quando occhi estranei si posano su noi. Non poter far nulla per coprirsi, né preservare il vitale, istintivo pudore. Impossibilità di mantenere il pudore… già, questa dev’essere caratteristica peculiare della morte. E’ evidente che non v’è decenza alcuna nell’atto stesso di abbandonare il proprio corpo all’arbitrio o al caso, non essendone più custodi. Non v’è nemmeno traccia di responsabilità o volontà. Allora il pudore andrebbe considerato appena una sciocchezza per i vivi, e non un valore assoluto su cui fondare le scelte morali…
Si allontanò dalla vasca. Ora la vedeva con un’ombra di sospetto, quasi fosse responsabile dell’ambigua e pericolosa serie dei pensieri. Si sistemò la cravatta, allacciò i polsini della camicia, si lavò le mani. Quella di lavarsi le mani era diventata una compulsione, più che una vera e propria necessità. Nient’altro che una convenzione per i vivi, che avrebbe finito per scorticarlo.
Qui c’è ancora una macchia…[1]
Tornò nella stanza da letto, e sollevò la cornetta del telefono. Digitò il numero. Pochi istanti dopo una voce gli rispose.
«Sono io.» annunciò. «E’ per oggi, vero?»
Un basso brusio si sperse a pochi centimetri dal microfono.
«Va bene, sto arrivando.» concluse. «Ci vediamo sul posto.»
Ripose il ricevitore e si girò nella stanza. Lo sguardo gli cadde sul dorso di un libro che teneva su uno scaffale. Scorse il nome di Von Balthasar comporsi con lettere scure. Quell’immagine suscitò uno scintillio nel cuore, rotolandosi nei molteplici significati che portava con sé. Ma non aveva il tempo per contemplarli. Si fermò appena, trafitto dal corteo di archetipi che s’infiammavano nell’inconscio. Kabod, Doxa… Abbiamo visto la sua Gloria[2]. Questo era tutto ciò che poteva accettare, in quel momento. Ripeté ossessivamente le parole a fior di labbra, quasi dal loro suono si distillasse un’affilata penetrazione del mistero. Afferrò la giacca che stava in attesa, distesa sul letto, e lasciò l’appartamento.

L’auto era parcheggiata in strada. Nel momento stesso in cui il motore si accendeva, si riaffacciò nella mente l’immagine della vasca, di una morte che avveniva nell’abbraccio accecante dello smalto bianco, nel silenzio invincibile dell’acqua stagnante. Morte per acqua, pensò… Un rituale di purificazione e rigenerazione; l’atto di passaggio fra un mondo all’altro, dal legame delle spoglie quotidiane alla liberazione dell’eternità. Phlebas il fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il gorgo profondo del mare, e il guadagno e la perdita... Mentre affondava e affiorava attraversò gli stadi…[3]
Che razza di preoccupazioni – si disse, interrompendo bruscamente il flusso di pensiero. I fenici, ottimi naviganti, erano inventori dell’alfabeto…
L’auto partì, e le immagini della strada in movimento, degli alberi e delle chiazze di colore che si susseguivano rapide oltre le fiancate, entrarono in lui, spostando l’impronta della vasca. Respirando, a poco a poco, trovò il modo di recuperare una frazione di lucidità, e di raggruppare alcune idee – poche, ma fondamentali. Era il momento di riflettere: era il momento di capire come sarebbe stato meglio comportarsi, ora che il giorno della scadenza era stato fissato, e non era più ammissibile tirarsi indietro. Quali mosse segnare; in quale punti soccombere, senza mostrarsi arrendevoli; dove portare avanti il compromesso, senza cedere alla tentazione di rinunciare del tutto.
In fondo, non era mai stato bravo con gli scacchi: era un giocatore mediocre, dalle mosse prevedibili; si lasciava mangiare immediatamente i cavalli perché non aveva voglia di usarli o non sapeva muoverli; gestiva male e con pesantezza le torri; puntava tutto sulla velocità di alfieri e regina. Così, se incontrava un altro giocatore mediocre, poteva vincere con una certa facilità, ma se lo sfidante aveva una minima esperienza, cadeva bruscamente nella sua trappola, e i pezzi morivano uno dietro l’altro. Morivano… Con spaventosa rapidità. Le tattiche complesse non lo risparmiavano mai.
La trappola stavolta era piuttosto insignificante. In confronto la battaglia di Teutoburgo o di Isso diventavano autentici capolavori di imprevedibilità… Desidera meno sconfiggere i persiani che essere personalmente lo strumento della vittoria[4]. Personalmente lo strumento…
Alessandro era un genio. Come fare per sentirsi artefici di un corso di eventi? Quale divinità bisogna possedere in corpo? Il laccio che gli si stringeva intorno cominciava a farsi soffocante, e le impronte attorno al collo si affondavano secondo dopo secondo; tuttavia, il problema continuava a non mostrare una reale consistenza. Lo prendeva, lo girava e lo rigirava, e per quanto si sforzasse a renderlo spaventevole e insormontabile ai suoi occhi, era costretto ad ammettere che se l’era creato da sé. Sarebbero bastati un minimo d’iniziativa, di intelligenza, per deviare l’esito degli avvenimenti. Facile, col senno di poi, pretendere di non lasciarsi immischiare; sperare di non aver dato la parola, strappata come una promessa. Lui, almeno, le promesse le manteneva. Non ricordava una sola volta in cui fosse venuto meno alla propria parola. Dalla collina, dove morendo il sole precipita, scroscia il sangue ridente – sotto querce senza parola![5]
Stupido senso dell’onore…
Il semaforo tornò verde, ma non riuscì ad andare lontano: una mandria di automobili occupava la corsia. Avrebbe pagato per avere una pistola e mettersi a sparare in aria colpi di avvertimento, oppure per trovare un lanciamissili nel bagagliaio da adoperare per aprirsi la strada – come in videogiochi di diversi anni fa, in cui il mondo virtuale ti lasciava godere la libertà di una piccola, seppur fasulla, rivincita su qualsiasi dolore. D’un tratto un’utilitaria sbiadita si spostò di lato, ed egli penetrò rapido il passaggio per infilarsi in una via secondaria. Senza uccidere nessuno avrebbe allungato un po’ il tragitto, ma, paradossalmente, sarebbe forse arrivato con un leggero anticipo.

Era la prima volta, si accorse, che percorreva quella via in auto. Magari l’aveva già attraversata a piedi. Ma era irrilevante.
E’ curioso l’effetto che provoca uno scenario non noto, incontrato nella città che si crede familiare: è una parentesi da oltrepassare fra due punti di un tracciato, una frattura dimensionale in cui si viene sbalzati altrove, mentre un senso d’estraneità e mutamento sale lungo la pelle. Il suo corpo era lì, ma la mente era altrove, e la bocca parlava una lingua straniera, gli occhi percepivano colori in frequenze che comunemente non si percepivano, e le forme si prolungavano sulle ombre fondendosi e agitandosi, fino a far sparire i volumi dietro nuove facciate. L’impressione non durò che pochi attimi, il tempo di uscire dalla via per immettersi nella circolazione principale; fu sostituita da serie di nuove immagini, che non si fissarono nella memoria. Ma un’ansia sottile iniziava a stendersi al suo seguito.
Quando arrivò a destinazione, parcheggiò davanti all’edificio. Scese con una lentezza che sapeva di caricatura, e si affrettò ad entrare. Mentre passava sotto l’insegna, e le porte si aprivano, mentre scorgeva le prime linee degli interni e l’espressione annoiata del portiere, qualcosa nell’insieme, forse un suono nell’aria, o una forma imprevista slanciatasi nel campo visivo, lo costrinse a fermarsi. E allora notò con chiarezza l’elemento fuori posto. L’anello che non tiene…[6]
Si ricordò di un episodio verificatosi anni prima, lasciato poi inesplorato nei recessi del cuore. Era notte: pochi minuti mancavano perché l’orologio segnasse l’una. Era appena uscito di casa. Scendendo le scale, d’un tratto s’era bloccato sulla rampa tra il primo e il secondo piano. I muscoli parevano paralizzati, i sensi si tesero in un assoluto ascolto. Quasi una voce appena percettibile l’avesse chiamato; quasi ci si dovesse attendere un’apparizione, un avvenimento qualsiasi.
Si trovò, inaspettatamente, nel buio: buio a tratti squarciato da alabarde di luce che salivano dall’ingresso principale; buio impenetrabile e asettico, inoffensivo e privo di personalità. Eco della tromba delle scale, spirale in cui s’inghiottiva il tempo e il respiro. Sospeso nell’aria con la sola solidità del marmo a separarlo dal vuoto, rimase a lungo immobile prima di prendere una coscienza precisa di quanto stava accadendo. Sollevò lo sguardo, e scorse il lucernario affacciato sul cielo notturno; poco distante l’aggettarsi d’una pianta ornamentale che sporgeva i rami da un angolo del piano superiore; poi giù, rivolgendosi all’ingresso illuminato, lungo le mura graffiate color panna, il portone, la parte superiore tagliata, altre piante che s’incolonnavano come guardie immobili sui primi tredici scalini.
Allora, nel silenzio, avvertì un rintocco costante, simile al pendolo di un enorme cuore, provenire dallo scantinato. I contatori dell’elettricità – pensò. Come se quel suono avesse tagliato un nodo pesante nei meandri della mente, lo raggiunse una chiara intuizione.
In quel momento non avrebbe saputo dire se si trovasse perfettamente, realmente solo. Se il condominio fosse disabitato, o lo circondassero decine di inquilini… se questi fossero addormentati o ancora insonni, come lui trascinati in un’insopprimibile veglia. Si accorse con terribile evidenza di non sapere nulla delle altre persone, della loro vita che lo circondava in una trama invisibile di fili; di non avere certezze sulla loro presenza, su contenuto e identità di quest’ultima, sulle relazioni fra una presenza e l’altra, ma solo impressioni, fantasmi che venivano e soffiavano come il flusso di una marea, senza lasciare segno, senza lasciarsi toccare né amare. All’improvviso la distanza formatasi fra lui e la totalità dell’esistenza divenne incolmabile – scavandosi sulla rampa di freddi scalini, inghiottita dal buio – che non si sentì sicuro nemmeno della vita delle piante, di nessuna vita, tantomeno della propria… Sentiva solo il peso di un’inesprimibile vuoto.
Ora quella medesima epifania si ripeteva. Per un istante, attraversando la soglia, scoprì di non aver nulla a che spartire col resto del mondo, col resto dei suoi abitanti, con la loro storia, col residuo di vita che lo circondava, e che per un qualche motivo non entrava in risonanza con la vita che portava dentro di sé. Non era una semplice sensazione di estraneità: era assai peggio. Era come se si fosse accorto di non essere mai nato in quel mondo: come se il suo parto fosse stato interrotto, lasciato incompleto, e non fosse mai venuto del tutto alla luce. Una persona postuma.
Con questi spettri che pulsavano, raggiunse il tavolo al centro del locale e si sedette di fronte a lei. Mentre lo guardava, confessando nel sorriso di non aver colto nulla del suo dissidio interiore, egli avvertì assoluta l’impressione di aver di fronte a sé una perfetta sconosciuta.


[1] W. Shakespeare, Macbeth.
[2] Vangelo di Giovanni.
[3] T. S. Eliot, The waste land.
[4] Diodoro Siculo, Biblioteca storica.
[5] G. Trakl, Tristezza.
[6] E. Montale, I limoni.

HIMMLER NON L'AVREBBE MAI FATTO di Filippo Anniballi


Sul terrazzo a boccheggiare in mutande, davanti al laptop prestatomi dalla mamma di Sanpaku, l’amico di una vita. Il laptop della signora Sanpaku poggia sulle mie gambe sudate, così occasionalmente mi prendo la scossa. Fanno quaranta gradi all ’ ombra e mi sono rimaste solo tre sigarette. Di tanto in tanto butto l’occhio al palazzo davanti, copia esatta di quello in cui mi trovo, un immensa scogliera bianca di cemento, otto piani di roccia impiegatizia con dei davanzali pericolosamente bassi. Noi il nostro l’abbiamo rialzato, io sono alto solo uno e ottanta ma il davanzale mi arriva poco sopra al calcagno. Mi trovo all’ultimo piano, quassù osano soltanto le aquile e gli sguardi delle massaie annoiate, che giù nel piazzale d’inverno i figli in Napapiri si ammazzano di canne. In corrispondenza del mio piano, quaranta metri in linea d ’ aria, osservo la mia nemesi, una tipa in smanicato da combattimento; se ne sta li, bigodini e braccia grassocce, a fumare una sigaretta di circostanza per ingannare il tempo che la separa dai suoi boccoli perfetti e dalla cottura della peperonata. Più su, il cielo è coperto da una coltre lattiginosa che lo riveste quasi completamente. Pur stando immobile, sudo. Ho persino smesso di bere birra e mangio molte banane per via di quella storia che il potassio fa bene. Per il resto me ne sto davanti al portatile a fare finta di scrivere un articolo che firmerà qualcun altro. In modo da ridurre al minimo i movimenti, premo i tasti usando solamente un dito, anche se non scrivo il mattino ha l’oro in bocca… Mi trovo a due passi dalla cucina, una sorta di deserto dei tartari con una torre di avvistamento, una pila di piatti luridi che si erge minacciosa dal livello. Quando devo skippare una canzone sul lettore, lo faccio con il piede. Si tratta di un numero molto bello, tanto che per un attimo mi domando se non stia sprecando il mio tempo qui a Casal Bruciato, forse dovrei semplicemente fare armi e bagagli e scappare con un circo e farmi assumere come contorsionista, o magari come clown. L’idea me la deve aver data un insolita colonna che percorreva Via Mario Borsa alle dieci di un sabato mattina. Era un insolito corteo, in testa una macchina con un grosso megafono a passo d’uomo, seguita da qualche zebra e un paio di cammelli spelacchiati portati alla corda da degli omini con delle sgargianti divise blu. Mi sono stropicciato gli occhi, ma poi la voce gracchiante dal megafono mi ha rasserenato, invitandoci ad accorrere tutti al circo, grandi e piccini e la cosa mi ha molto tentato. Me lo sognavo la notte sto circo, ma mica solo i cammelli e le zebre, la donna cannone e le trapeziste, un orda di funamboli al gran completo, mancavo solo io per l’appunto. Meglio non pensarci tutto sommato. Devo stare immobile, come un campione di un due tre stella, gli articoli purtroppo non si scrivono da soli. Ogni tanto picchietto un tasto del laptop con il naso, grazie a dio non mi vede nessuno. Poi però m’irrigidisco di colpo, l’ostinazione mi gioca orribili scherzi. Un rivolo di sudore mi parte dall’attaccatura dei capelli e poi giù per la fronte, all ’ inizio con lentezza ma acquistando man mano velocità. Potrei cancellare la fastidiosa goccia con un semplice gesto ma sarebbe per me una sconfitta. Mi ci intestardisco, le mani sempre lungo i fianchi, deciso a non cedere per nessun motivo al mondo. Sbuffo e lei in un attimo è già sul naso, l’irritazione ha dunque la meglio, sollevo un lembo di camicia e abbassando la testa mi asciugo. Sono ormai diverse ore che me sto davanti al portatile a cercare di andare avanti con l’articolo, non che me lo abbia ordinato il medico di scriverlo sto benedetto articolo, peggio, figuriamoci… Squilla il telefono, è il mio capo, il nazi esoterico, il documentarista malvagio… Mi domanda ovviamente se abbia terminato l’articolo, il vero problema sta nel fatto che l’unica cosa che mi ricordo è che centrava qualcosa con Wiesenthal che è morto due giorni fa o con Odessa (l’organizzazione per salvare il culo alle ex SS), ma non ricordo di chi dovevo parlare di più, se ne dovevo parlare bene o male, dell’uno o dell’altro, dovevano esserci lacrime di coccodrillo o sviolinate, insomma è una roulette russa bella e buona e sono troppo vigliacco per premere il grilletto. Ho la gola di colpo molto secca. Cerco di deglutire, senza troppa fortuna, un improvvisa voglia di una birra ghiacciata e di una piscina nella quale stare ammollo fino al sopraggiungere dell’autunno, in un luogo dove non ci sia campo ne seccature, irraggiungibile da qui all’eternità. “ Wiesenthal? ” Prendo tempo, faccio il finto tonto. “ Proprio così testa di cazzo, devo consegnarlo domani l’articolo, è pronto vero? ” Mi accendo una sigaretta, la terzultima, è amara e sa vagamente di Minias. Forse facevo meglio a mangiarmi un ’ altra banana. Raccolgo di colpo le idee e contrattacco: “ Ho appena finito di leggere il Dossier Odessa! ” La verità è che mentre lo leggevo in autobus mi sentivo molto agente segreto, evitavo infatti che polacchi e filippini vi sbirciassero dentro che ne andava della mia vita stessa, purtroppo l’unica cosa in pericolo era il mio posto di lavoro, adesso più che mai giacché quell ’ altro si mette a sbraitarmi dentro al telefono dal suo appartamento in via Margutta che lo dovevo finire di leggere una settimana fa, la mette sul piano personale, offende. Io farfuglio qualche scusa e lui si agita ancora di più, tanto ha l’aria condizionata il cocco. Dove mi trovo io, dal mio Berghoff a Casal Bruciato l’aria è decisamente più rarefatta. “ Dove ti trovi? Cosa stai facendo? ” A) Mi sto tirando una sega. B) Sono nel bel mezzo di un corso di decoupage. C) “Dovevo scrivere un articolo su Wiesenthal, ma ho ripiegato su un racconto di un pitbull che parla in prima persona, il cane è rinchiuso nel furgone di dei traveller francesi, siccome sta morendo di fame lecca un piatto con della ketamina, impazzisce e sbrana i traveller… ” Silenzio imbarazzante. “ Va tutto bene? ”“ Alla grande… ” In realtà mi sto pisciando addosso, ho il lab top in equilibrio sulle ginocchia, con una mano tengo il telefono e mentre cerco di alzarmi vedo che l’elastico dei miei boxer ha ceduto, per non parlare del fottuto articolo… Il boss mi intima di riorganizzare le idee, richiamerà tra dieci minuti e sarà meglio dare un bel taglio alle cazzate. Javol… Mi butto sotto la doccia, è l’unica cosa da fare. Ho finito le banane. E Wiesenthal? Non credo che il racconto sul pitbull parlante sarebbe la stessa cosa. Potrei spegnere il telefono e non pensarci più ma il nazi esoterico sostiene di usare il suo terzo occhio, con il quale mi controlla in ogni momento. Dice di farlo per il mio bene, come no. Certo il capo non è soltanto un nazista, è anche molto esoterico. Ogni anno va in ritiro spirituale da una certa Gurumai. Mi risulta che ci vadano un bel po’ di pezzi grossi dello spettacolo, alti papaveri dell’intrattenimento. Secondo me ogni volta tornano dall’India più nevrastenici di prima. Gurumai è vergine, perciò sembra che il giorno in cui la darà via perderà il suo influsso. Così dicono, non saprei e chi la controlla dopotutto… Sai Baba? Il nazi esoterico sostiene che la guru se lo vorrebbe fare. Dice che quando meditano gli lancia certe occhiatine, solo a lui poi… Io non lo so, evidentemente mi sfugge qualcosa, il mio Sturbhanfhurer non è proprio un adone… eppure a detta sua se lo vogliono trombare tutte. Mentre mi racconta questi aneddoti di fiche innamorate pazze di lui si lascia andare in questo strano tic, tipo un leprotto che arriccia il naso. In questi casi non posso fare a meno di fissarlo quanto è spassoso, così per un secondo mi immagino di essere il cappellaio matto, ovviamente in procinto di prendere un te con il bianconiglio. Gli uomini in fondo non devono per forza essere belli, spesso basta quello che chiamiamo fascino. L’ex moglie del capo, ora che ci penso, è una donna molto bella, discendente addirittura di un papa che lui ci tiene molto al lignaggio. Hanno avuto una figlia che dovrebbe avere pressappoco la mia stessa età e non mi è mai stata presentata. I cessi stai a vedere, quelli te li presentanoMentre mi asciugo squilla nuovamente il telefono. E' il nazi esoterico che mi intima di prendere un taxi shnell, shnell e di recarmi da Pappagone, il suo assistente cociaro. Pappa è il tirapiedi per antonomasia con un debole per le tipe improfumate e rigorosamente in menopausa nonostante lui abbia solamente quarant’anni. Sembra che in gioventù sia stato internato in un nosocomio in Svizzera, ha lavorato all’Avanti e infine prima di passare alle dipendenze del nazi, era il segretario di un regista reazionario sposato con una grande attrice italiana. Non faccio nomi, ma visto che snocciolo tutta questa serie di dettagli è come se li facessi. Il regista ha pregato il nazi esoterico di liberarlo dall ’ inquietante presenza di Pappagone e lui lo ha assunto a sua volta. Il Pappa è una sorta di patata bollente da quello che mi pare di capire, ma questa è un'altra storia. Finalmente esco dal mio limbo. A questo punto mi presento da Pappa per attaccarmi al campanello, lanciando dei sorrisi un po’ costipati in direzione del tassinaro. Da quando sono sceso dalla vettura, l’uomo si è fatto improvvisamente sospettoso. Deve essere che quando siamo al verde emaniamo un odore particolare. Via Po adesso sembra un sobborgo di Saigon e l’assistente ciociaro con sto caldo figurati se sta in ufficio… starà a Villa Borghese a rimorchiare tardone. Comunque sia, mi faccio prestare il telefono dal sempre più scoglionato tassista e telefono al Tombeur di vecchie, che inizia a balbettare duemila cose assurde in un idioma incomprensibile, un po’ Don Buro in Vacanze in America e un po’ Salvatore del Nome della Rosa, solo peggio. Il capo a volte perde la pazienza e lo schiaffeggia. Altre volte lo tratta male e basta, per il semplice gusto di farlo. Come molti capi, è un sadico. Una volta mi ha persino detto “ La prossima volta che Pappa ti contraddice, tu mollagli un bel pugno su quel naso da contadino…sporcagli di sangue quel ridicolo completino Armani che si mette per andare in ufficio ” Sai che bella guerra tra poveri, io e il Pappa che ci azzuffiamo per guadagnarci un tozzo di pane, un briciolo di rispetto. Inoltre c’è da starci in campana, la storia del nosocomio svizzero insegna… Prima o poi questo farà una strage. Il giornalista esoterico d’altro canto non ne può fare a meno di umiliarlo, ora che si è accorto che la cosa mi fa ridere rincara la dose e va a finire che mi sento pure colpevole. Una volta erano a cena lui, Pappa e degli altri tizi della televisione, quando il Pappa, evidentemente gratificato per via dell’invito, ha la brillante idea di dirgli al capo “ Alberto, ma quanta acqua bevi? Non ti farà male? ” Pare che l ’ altro gli abbia detto di farsi i cazzi suoi e gli abbia dato anche un bel pizzone in faccia. Giù tutto il tavolo a sbellicarsi, un convegno di personaggi di Grosz. Basta così, non voglio raccontare la vita di Pappa ma diciamo comunque che nella telefonata con lui riesco a capire soltanto dentishda e Cisterna, Cisterna deve essere appunto il paese di quel suo cugino che fa il dentista. Mi viene da pensare, se questo buzzurro è laureato in giornalismo io mangio risotto e cago supplì. Che non sia in ufficio perché è dal dentista o a incularsi Gina Lollobrigida sono affari suoi, la cosa mi mette comunque di buon umore poiché adesso il nazi esoterico si incazzerà di più con Pappagone che con me. Mezz'ora dopo raggiungo il mio Sturbahnfhurer a casa sua in centro, mi faccio mollare i soldi per il taxi e scendo per comprargli del succo di frutta. E’ fissato con l’ananas perché pensa che sciolga i grassi, un po’ come io che credo che il potassio mi ripiglia. Non è nemmeno vestito il negriero, praticamente a palle all’aria, condizionata naturalmente… Mentre aspetto che sia pronto, non trovo di meglio che asciugarmi il sudore della fronte su di un arazzo originale delle SS, almeno Alberto non è uno di quei milioni che ora comprano i mobili all’Ikea, anzi qui c’è da controllare i lampadari per sincerarsi che non siano di pelle umana. Me ne sto dunque in salotto, le pareti rivestite di libri fino al soffitto, a macchinare scuse che giustifichino il mio ritardo nello scrivere l’articolo. Il capo dice che ha quasi fatto, nel frattempo mi metto a giocherellare con una statuina di Ganesh. Già che ci sono gli infilo una sigaretta accesa nella proboscide ma la tolgo subito perché sento i passi del mio aguzzino. Per fortuna il corridoio è lungo, ho tutto il tempo di lasciare perdere la statuina e darmi un contegno. Eccolo, polo e blazer blu scuro, i capelli biondo cenere, sembra un nobile decaduto. Mi sparo un bel braccio teso, una parodia del dottor Stranamore che il mio datore di lavoro in questo momento non sembra gradire molto. Dire che le prime volte lo faceva tanto ridere. “ Sei stato dal bieco essere Lombrosiano? ” sempre al volo. “ Pappa? ”“ Chi altri… ” Il nazi esoterico è in down. La sera prima l’avevo raggiunto affinché mi fossero dettate le linee generali dell ’ articolo. Ero stato congedato quasi subito, lo Sturbahnfhurer era più preso dalle piste di Cocaina sul suo scrittoio di marmo, che dalle mie sciocche domande su Wiesenthal. E poi era lampante, voleva proseguire il resto della serata in compagnia del troione Californiano da trecento euro a botta. Morale della favola, la sera leoni, la mattina coglioni… “ Pappagone è dal dentista… ” Vengo subito trafitto da uno sguardo carico di risentimento. Stai a vedere che adesso è colpa mia. “ Siete due deficienti… ” Sibila il mio antagonista. Ci deve essere andato giù duro, ora ce l’ha con il mondo intero. “ L’articolo? ” Non posso rimandare, metto in atto il mio piano di emergenza. Consegno al capo una copia del racconto del pitbull parlante come se nulla fosse. L’idea è di pretendere che mi sono sbagliato, la copia tra l’altro è piena di macchie dato che la mia stampante ha il cancro. Il nazi esoterico gli da una veloce scorsa, poi inizia a perdere il suo classico pallore in favore di un rosso attenzione alle coronarie, la giugulare gli inizia a pulsare paurosamente. Forse dovrei scappare. Lascia cadere i fogli e si porta le mani alla bocca come per mordersele. Ho paura. Ma poi la situazione cambia drasticamente, il capo è sempre furioso ma ha il labbro superiore macchiato d’inchiostro. E' un perfetto baffetto alla Hitler, da non crederci, manco a farlo apposta. Finisco per terra e inizio a rotolarmi sul tappeto persiano che sostiene gli sia stato regalato da Mafalda di Savoia, lui tutto pappa e ciccia con l’aristocrazia. A questo punto perde completamente le staffe e per la prima volta prova ad allungarmi un ceffone. Riesco a schivare, lasciando che ne faccia le spese la statua del povero Ganesh. Guardo la divinità indiana andare in frantumi. Mi chiedo se questo avrà delle ripercussioni sull’ordine dell'universo, dopo di che mi chino per raccoglierne almeno la proboscide, rimasta incredibilmente intatta. “ La posso tenere? ” Forse ho un po’ esagerato. Vengo sbattuto fuori a calci e mentre scendo le scale mi rendo conto che il nostro Himmler dei Navigli mi ha dato cento euro per pagare il tassì. Guarda caso mi sono dimenticato di dargli il resto. Poco male, se ogni tanto si ricordasse di pagarmi gli scriverei una biografia su Wiesenthal, un Kaddish addirittura, ma non credo sia troppo il suo genere. Corro in strada tipo prendi i soldi e scappa. Il tassinaro non se n’è ancora andato, quindi monto in macchina e gli intimo di muoversi alla svelta. Il tipo brizzolato non è troppo contento di rivedermi, alla fine però dopo essersi grattato una chiappa, mi chiede scocciato dove voglia andare. Conto i soldi che mi sono rimasti. “ Dritto al Valalla… ” Il tipo non capisce, forse crede si tratti di un qualche locale ma parte lo stesso. Io metto l’aria condizionata a cannone senza che lui mi abbia dato il permesso. Nello specchietto retrovisore riesco a intravedere un nazista biondo e un po’ sopra peso corrermi appresso per via Margutta, completamente scalzo e con i capelli per aria. Il tassinaro sgomma come un cafone e scaracchia fuori dal finestrino “ Certo Roma è pieno de matti… ” Annuisco benevolo. Alla radio, Nilla Pizzi canta “ Una vita spericolata ” . Giunti in prossimità del Muro Torto, metto la proboscide di Ganesh sul Cruscotto e chiudo gli occhi. Il tassametro segna 5.70 $…

LITTLE RED TRASH RIDING HOOD di Claudio Guidi


Un primo squillo.

Un secondo squillo.

Un cellulare di colore rosa che trilla insistentemente. Campeggia sul display una scritta semplice "Mà".Una mano afferra il fastidioso pezzo di plastica. Una mano piccola e gentile, dita lunghe e ben proporzionate, unghie smaltate di rosso.


La mano in questione è di una ragazza, probabilmente più vicina ai 18 che ai 20. Questa ragazza ha un nome, ma non importa conoscerlo. Nel quartiere è soprannominata Cappuccetto Rosso, per via dei suoi capelli a caschetto di colore rosso naturale. Una di quelle ragazze che a guardarla si pensa immediatamente che faccia la modella. Una ragazza che non ha bisogno di alcun artificio per far girare la testa a uomini e ragazzi quando li incontra per strada.


Risponde svogliatamente al cellulare.


- Pronto mà?

- Pronto? Ah, bene, ce l'abbiamo fatta a rispondere! Che diamine aspettavi? Sai che ore sono?

- Sì mà.

- E sai cosa devi fare?

- Sì mà.

- E allora che ci fai ancora a casa? Lo sai che devi andare alla casa di cura a dare da mangiare a tua nonna, eh? Lo sai che se non c'è qualcuno di famiglia quella è capace di mettere sottosopra tutto il reparto, vero? Muoviti ora!

- Uff...sì mà, ora vado.

- Non ora, subito!


Rapporto madre-figlia come tanti altri, perfettamente nella norma. La madre di Cappuccetto Rosso è agente immobiliare. Praticamente a casa non la si vede mai. E' sempre impegnata a lavorare. Un'anima in pena che affoga i suoi pensieri nel lavoro.

Ma questo a Cappuccetto Rosso poco importa. Ha ben altre cose per la testa che i problemi della madre. Nei fatti, il familiare che deve stare là ad imboccare la nonna è lei. Impegno che non le peserebbe più di tanto, se avesse qualche anno in meno, o qualche anno in più. Ma Cappuccetto Rosso è in quell'età ingrata in cui i doveri familiari, foss'anche buttare la spazzatura, pesano come un macigno.


Cappuccetto Rosso non ha il padre. Brutto affare, davvero. Era un delinquente del quartiere, di quelli che entra ed esce dalla prigione. Fu così fino a quel giorno, in cui quella che aveva promesso essere la sua ultima rapina si tramutò in una tragedia. L'arrivo della polizia, la sparatoria, il padre che morì tra le braccia del suo migliore amico.

Ma tutto ciò Cappuccetto non lo ricordava. Del padre ha notizia solo attraverso gli inclementi racconti della madre e le leggende metropolitane del quartiere, che lo dipingono come un ladro galantuomo.


La ragazza si prepara per uscire e andare dalla nonna. Spera solo di potersi sbrigare, ha altro per la testa. Si guarda nello specchio. Decisamente ha altro per la testa, che la nonna. Ha già fatto perdere la testa a tanti ragazzi, e fare quel gioco la diverte non poco. La fa sentire onnipotente.

Non sono poche le volte che si è concessa, perchè in fin dei conti è lei ad avere il meglio di quei rapporti. Talvolta si sente un pò come una mantide religiosa.

Ma la verità è un'altra. Cappuccetto si è convinta che l'amore, non già quello fisico, non esista. Anzi, pure esistesse sarebbe da sfuggire come una malattia contagiosa.

A cosa porta in fin dei conti?

Pensa alla madre, pensa al padre di cui non si ricorda.

Scuote la testa.

Che le malelingue pensino pure quello che preferiscono di lei, che sia una poco di buona, una ragazza facile. Se ne frega, Cappuccetto Rosso. Va dritta per la sua strada, giorno dopo giorno.


Afferra lo zainetto, chiavi di casa, casco, e attraversa la porta, diretta alla casa di cura.

Arriva al pianerottolo, un rumore dietro di lei. Uno zippo che si accende.


Si gira, riconosce l'uomo nella penombra, sorride.

Un nero gigantesco, vestito di nero, che fuma una sigaretta scura. Contraccambia il sorriso e la saluta.


- Dove vai di bello, fammi indovinare, dalla nonna, vero?

- Certo che sì, è l'ora della poppata.


Lo guarda, gli si avvicina in punta di piedi, e giunta sotto al suo naso gli fà la linguaccia.


- Ti sento anche se non ti vedo, ragazzina impertinente.


L'uomo ridacchia. Quest'uomo ha un nome, ma non importa conoscerlo. Nel quartiere è soprannominato Hunter. Un arabo convertito alla religione cristiana, o alla religione di se stesso, come spesso dice. Vive di sigarette, di caffè scuro, di antidolorifici.

E' cieco.

In passato era il miglior amico del padre di Cappuccetto. Un gran figlio di puttana. Quel giorno, il giorno della rapina, pianse tutte le sue lacrime per non esser riuscito a salvare l'amico. Da quel giorno i suoi occhi non vedono più. Ma i suoi sensi sono diventati più acuti.

Quel giorno, il giorno della rapina, fece una promessa al padre di Cappuccetto Rosso. Da quel giorno, a parte il periodo trascorso in "collegio", ha sempre tenuto fede a quella promessa.

Una promessa strana, che lì per lì non comprese a pieno. Gli sembrò una cosa sciocca e senza senso. Ma il suo buon amico, in punto di morte, aveva forse visto cose che agli umani normali non sono concesse di vedere. Che avesse capito come sarebbe andata a finire? Chi può dirlo.

Ciò non importa a Hunter. Una promessa, un giuramento come quello, non può non essere onorato.E lui lo rispetta ogni qualvolta sia necessario, per niente impedito dalla luce che non offende più i suoi occhi.


La ragazza si alza sulle punte dei piedi, dà un bacio sulla guancia ad Hunter, e scappa via, prima che questi possa farle la solita ramanzina sulle sue amicizie, e farle le solite prediche, quelle che gli adulti amano fare agli adolescenti.


Arrivata in cortile salta sul suo motorino, mette in moto e parte.


Non ha fatto un paio di chilometri in direzione della casa di cura quando intravede delle macchine blu a sbarrare la strada. Il solito posto di blocco degli sbirri.


Un agente la ferma e le chiede con fare meccanico i documenti. Lei glieli passa, e questi si avvicina all'auto per verificarli.

I documenti vengono presi da un altro poliziotto, in borghese. Un tipo dalle folte sopracciglia e con le dita che sembrano artigli.

Questo poliziotto ha un nome, ma non importa conoscerlo. Nel quartiere è soprannominato Wolf. E' un grandissimo figlio di puttana, con un concetto molto personale della legge. E' commissario, ma quel giorno, il giorno della rapina, era un semplice graduato di polizia, ma molto determinato a fare carriera.E quel giorno era di servizio, passò fuori dalla banca mentre i rapinatori stavano uscendo. Fu lui a sparare al padre di Cappuccetto Rosso, malgrado questi avesse alzato le mani. Per quell'atto di coraggio rimediò una promozione.


Wolf guarda la ragazza, con una certa cupidigia negli occhi. Non è un segreto per nessuno che gli piacciano le ragazzine. Sono sempre state un suo debole. Del resto, il suo concetto di donna è molto semplice, non fà ragionamenti sofisticati in merito alle sfaccettature dell'universo femminile. Per lui ogni donna è una puttana; magari non si rende conto di esserlo, però per Wolf è solo questione di tempo, e prima o poi uscirà fuori. Si fà vanto di affermare la sua pregevole teoria in ogni occasione, anche in quelle in cui decenza consiglierebbe di tacere.

Ma Wolf non sa cos'è la decenza. Il suo unico metro di giudizio è il tornaconto che riesce a ottenere da qualsiasi situazione.


E in questo momento riflette su quale tornaconto può venirgli da quella ragazzina, che per altro ha già inquadrato diverse volte. Non è misterioso il suo sguardo, se la porterebbe volentieri a letto. Semplice e diretto.

Esce dalla macchina, con i documenti di Cappuccetto Rosso in mano.


- Ragazzina, dove te ne vai di bello?

- Sto andando da mia nonna.

- Ma dai? Ma non mi dire! Dalla vecchia e cara nonnina. Ah, che nipotina adorabile. Fortunata la nonnina.

- Posso riavere i miei documenti?

- Certo, certo, vai pure. Normale controllo di routine.

- Grazie.


Cappuccetto Rosso mette in moto e si allontana. Wolf è completamente rapito da quella ragazzina, tanto che non sente quanto gli dice l'agente che è al suo fianco. Percepisce le parole, ma non le afferra.In testa ha altro.

Sale in una delle auto, ha deciso che cosa fare.

Si dirige presso la casa di cura.


Cappuccetto Rosso arriva alla casa di cura, parcheggia il motorino, va all'ingresso. La solita strada di tutti i giorni, le infermiere la riconoscono e la salutano. Sanno dov'è diretta, dalla vecchia pazza, quella che urla e strepita in continuazione circa il figlio che le hanno ammazzato. Bel tipo che era il figlio! Proprio raccomandabile!

Ma per una mamma, il figlio è pur sempre il figlio.


E così Cappuccetto sale le solite scale, attraversa il solito corridoio, saluta il solito inserviente, arriva alla solita porta della solita stanza.

Bussa leggermente, ed entra.


Vede la nonna sotto le lenzuola, avvolta nel suo scialle. Avrà freddo, pensa.


- Ciao Nonna, ti ho portato il pranzo.

- Oh, nipotina mia, che bello vederti.


Ma c'è qualcosa che non va. La voce della nonna è un pò roca. E infatti la nonna non è la nonna, ma è Wolf, che infilatosi nella casa di cura ha minacciato un paio di dottori, ricattandoli circa alcuni loro peccatucci con certi stupefacenti, per poter portare avanti il suo losco piano.


- Nonna, ma che voce strana che hai!

- E' la bronchite, sai, qui fa un freddo.

- Nonna, ma che mani grandi che hai!

- Sono per abbracciarti meglio, Cappuccetto Rosso.

- Nonna, ma che occhi grandi che hai!

- Sono per guardarti meglio, piccola mia.


Al che Cappuccetto Rosso, per niente convinta, nota una cosa strana. Un rigonfiamento sotto le lenzuola. Un rigonfiamento tanto eloquente, quanto curioso, in quanto, a rigor di logica, non dovrebbe esserci.

Così si avvicina al letto, e tira via di colpo le lenzuola.


- Ah, però, nonna, complimenti!


Wolf lì per lì è colto alla sprovvista, ma si riprende subito, afferrando la ragazza.

Ma Cappuccetto Rosso non ha alcuna intenzione di andare via.

Anzi. Lo guarda spavalda mentre gli si getta addosso.


- Sappi, che per te alla fin fine non sarà così piacevole come potresti pensare ora.


E' il caso a questo punto di interrompere la cronaca degli eventi, se non altro per pudore e decenza. In fin dei conti, probabilmente, quanto avviene tra i due non è cosa che dovrebbe interessare altri che non loro, per l'appunto. Quindi, possiamo anche concedere un attimo di privacy. Magari si potrebbe anche trattare di altro, giusto come intermezzo. Ma anche no.

Riprendiamo direttamente il discorso un pò più in là sulla linea temporale.


Cappuccetto Rosso si sta risistemando, nella stanza di sua nonna nella casa di cura. Nel letto della nonna è Wolf, piuttosto provato da quanto successo nelle ultime due ore.

Ed anche piuttosto soddisfatto di se stesso. Può ben dire di aver messo un'altra tacca sulla sua pistola preferita. E che tacca. Già, non aveva mai trovato una ragazza così.


- Aspetta a compiacerti, Wolf, assassino di mio padre. Il bello deve ancora venire.


Gli manda un bacio con le dita, e si allontana.

Passa accanto ad un paravento, da cui proviene una voce profonda. Una voce nota.


- Penso che oggi ci incrociamo per l'ultima volta, Cappuccetto. E' il nostro ultimo giorno. Addio.


La ragazza passa veloce, senza girarsi, con una lacrima che le solca profondamente la guancia.


Wolf è ancora nel letto, quando lo vede entrare.

Hunter è in piedi alla porta, con una '45 automatica in mano. Punta con una sicurezza insospettabile per un uomo privo della vista. Spara due colpi, Wolf è preso al petto e al collo, si accascia sul letto, il respiro accelerato dall'adrenalina.


Una voce gli torna in mente, delle parole cui non aveva prestato orecchio quello stesso giorno.

"E' strano, commissario, sa che voce gira? Che tutti i ragazzi con cui è stata vista quella tipa là sono scomparsi nel nulla. Eppure quella ragazzina è pulita, non trova sia strano?"


Hunter rinfodera la pistola, e gli si avvicina.


- Sai, caro Wolf, ho aspettato tanto questo giorno. Sai perchè? Perchè quel giorno, il giorno della rapina, il padre di Cappuccetto Rosso mi disse di tenerla d'occhio, e mi fece promettere che avrei fatto secco ogni uomo o ragazzo che avesse avuto la figlia. Pensai che avesse le sue buone ragioni da padre. Però oggi finalmente ho capito perchè mi disse quelle parole. Certo, poteva darmi anche più dettagli...


Hunter afferra un inerme Wolf per il collo.


- ...poteva dirmi direttamente di fare secco te, ad esempio.


Hunter stringe Wolf per collo e nuca, uno scatto secco.


- Ma del resto, non è che si possa pretendere molto da un moribondo, no? Oh, che sciocco, ma guarda a chi vado a dire certe cose.


Wolf crolla sul letto, senza vita.


Hunter si gira e se ne va, da oggi la sua vita ha meno importanza, e sa che anche per lui il destino è vicino.

Esce dalla casa di cura, si incammina verso casa, senza troppa fretta.


Gli sbirri non ci mettono molto a scoprire quanto avvenuto, e a indovinarne il responsabile, oltre che a trovarlo.


In poco gli sono addosso.

Hunter li sente, uno per uno, percepisce il loro respiro, percepisce le pistole puntate contro di lui. Ma ride. Si è preparato per anni a questo giorno.

Solleva la testa, non guarda nessuno ma è come se guardasse ognuno di loro.


- So che la mia ora è vicina, ma prima di uccidermi è bene che voi sappiate una cosa, per quanto ciò non vi farà cambiare idea: per ogni goccia del mio sangue moriranno 10 di voi.


Cappuccetto Rosso sta correndo col suo motorino, le guance solcate da un fiume di lacrime. Pensa come oggi abbia capito tante cose; ha capito come tutto quanto il mondo possa girare eppure rimanere fermo; ha capito quanto le manchi il padre che non ha mai conosciuto; ha capito quanto la madre abbia sempre fatto di tutto per lei; ha capito quanto possa essere bella la vita, ma anche quanto possa fare schifo se non la si ha cara. Ha capito che il confine tra realtà e immaginazione è spesso sottile come un capello, e che al pari di un capello si può spezzare.

Ma soprattutto ha capito che fino ad oggi ha sbagliato tutto, e che malgrado ogni buon proposito, sbaglierà ancora. Ha capito che l'amore può esistere, e lei se ne è accorta troppo tardi.


Questo pensa mentre sente in lontananza degli spari, e poi un'esplosione, gigantesca, da far tremare la terra.


E a questo pensa mentre passa sopra al viadotto, e dirige il motorino oltre il bordo.

RUOMANIA di Gianni Solla


Io viengo da Ruomania. Arrivata qua tre anni e adesso lavora da signora Clara a pulire mierda e bava. Ruomania era mieglio di Napuli. Ogni vuolta che viene figlu di signora Clara lui vuole chiavare con mia e mi dà dieci euro, ma io no puttana di strada io dico tu dare mia trenta euro ma lui solo dieci euro e dice che napolitani tutti puoveri. Ruomania era mieglio di Napuli. Per esempio io cambio pannulone signora Clara, perché lei tre vuolte giorno mierda su sedia, divanu, lettu tutto ikea roba economica e io abbasso per cambiare pannolone signora Clara e lui subito vuole scupare. Inizio io stare da altra signora. Lei buona con mia. Poi muorta. Io trovata muorta mattina dentro a lettu e signora era dura. Io pensavo lei aveva fatto mierda dentro a lettu e aveva paura che io picchiare lei e non voleva parlare con mia. Allora io andata da lei e gridata e picchiata e sputata e poi capito che lei morta con faccia viola dentro a lettu. Io inizio non capire mai quando vecchi di Napuli muorti o dormire. Io penso che signora Clara muore presto perché lei ha cancro dentro schiena e io trovare altra signora che mierda letto e divano ikea. Noi Ruomania niente Ikea, noi tutto roba economica che si ruba da casa di vicino quando loro vanno ospedala di anemia. Quando loru tornati da ospedala non fai entrare casa tua perché dentro casa tui lori mobili e loro sedie. Metti scotch e sedia diventa buona. In Ruomania non ci stanno cinesi perché non conviene. Noi di Ruomania andare in Cina a lavorare perché loro molti soldi e poi signora cinese piccola mierda e facile lavara. Signore Napuli molta mierda. Io adesso a Napoli ma un giorno forse andare Italia a lavorare. Signora Clara due figli, uno chiavare sempre dieci euro, altro ricchione che gli piace cazzu. In Ruomania invece no ricchiuni a uomini piace chiavere femmine e basta. A Napuli molti euro molti ricchioni. Io penso allora che Italia molti ricchioni più di Napuli. Figlio ricchione signora Clara bravo ragazzo, lui cucina, veste con gonna e noi ci scambiamo anche reggiseno e camicette. Noi amiche. Io Romania avevo amica chiamava Micheljikenja poi muorta. Tutti muorti Ruomania. Mio figlio muorto, mio amante muorto, mio marito non mi ricordo. Romania facile muorire fame, guerra, ladri, ospedala. Bambini muorti perché loro prendono notte e ti portanmo ospedala e ti prendono pulmoni, reni, fegati e poi ti buttano su strada e mattina vedi bambini muorti senza occhi e tu vai a vedere se bambino tuo figlio o figlio vicino di casa che non si truova da settimana e poi non è lui e tu dici meno male. Con figliu ricchione signora Clara noi giovedì andare a fare passeggiata per abbuscare qualche cazzu alla stazione oppure Mergellina passeggiata vicino a mare. A mergellina si abbuscanu parecchi cazzu perché io pensa che mare venire voglia di chiavare. Noi mettiamo su muretto e ogni tanto passa ragazzo su motorino e grida “Ricchion!” ma lui scherza e figliu ricchione signora Clara piange e io dico non piange che lui adesso fa incidente su motorino e muore. E ragazzo su motorino quasi sempre fa incidente e io dico a figliu ricchione signora Clara hai vista lui fatto incidente. Noi incontrato signore sessant’anni che ha detto che lui voleva chiavare tutte e due. Io detto signore che figlu signora Clara ricchione e signore sessant’anni detto che lo sapeva e anche lui ogni tanto piace cazzu e allora andati tutti e tre albergo dietro stazione. Spogliati tutti e tre e vecchio preso viagra ma cazzu piccolo piccolo e figliu ricchione signora Clara aveva cazzu venticinquo centimetri e duro come sedia ikea soggiorno casa signora Clara e io non capivo adesso chi doveva chiavare chi. Io messa quattro zampe e ogni tanto prendevo cazzu ma nun mi ricordo quale. Io paura che vecchiu sessant’anni moriva prima di dare soldi allora ho detto questu a figlu ricchione signora Clara e lu ha detto a viecchiu dacci soldi o ti ammazziamo. Io detto a figliu ricchione signora Clara, noi non ammazzare viecchiu, lui muore da solo per cuore lesionato mentre chiava allora figliu ricchione detto a viecchiu e lui datu soldi. Ieri venutu duttore da signora Clara e detto che lei forse morta settimana prossima. Io cerco lavoro in Italia perché andare via da Napuli. Andata a stazione a domandare biglietto treno da Napuli per Italia e ferroviere detto che nun capiva. Se anche Italia come Napuli io torna Ruomania.

IN MACCHINA di Emiliano Abundo


Mi ritrovo come sempre, ancora oggi nonostante tutto a viaggiare con la mente, e succede sempre nello stesso modo, mentre guido.

Quando faccio strade conosciute la mente parte e la macchina incomincia una gara, gira su un circuito stabilito dal tempo e i miei pensieri vanno indietro, per poi ritrovarsi nello stesso punto. Tutte le volte è doloroso, tutte le volte fa male, col tempo ho capito che ci si abitua a tutto anche al dolore, ma ai ricordi no, i ricordi ti assalgono sempre con la stessa forza, e come se ti entrassero dentro dal petto tanto fanno male, è difficile pensare che invece erano già li, nella tua testa.

Oggi come ieri e come sempre, la macchina va, strade semafori incroci, tutte tappe, luoghi reali che nella mente sono ricordi precisi, come il semaforo dove tutto questo è iniziato. L’ho vista e dal primo momento è riuscita a capirmi come nessuno mai, con uno sguardo, mi guardava con il sorriso più triste che avessi mai visto, come fosse una lacrima trasferita sulla bocca. L’ho amata, e forse ancora l’amo.

L’ho amata nonostante non fossi sicuro del suo amore, sembrava che potesse provare soltanto tristezza. Non ha mai detto di amarmi e nemmeno io a lei, non diceva niente mi guardava e mi sorrideva, e io l’amavo, più di ogni cosa al mondo, avrei fatto di tutto per quel sorriso, ma poi tutto è finito, il semaforo si è fatto verde e noi siamo ripartiti ognuno con la sua macchina, ognuno per la sua strada.

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