venerdì 5 settembre 2008

Numero di Settembre







Finalmente il numero di settembre del nostro blog. Per farci perdonare del leggero ritardo vi proponiamo in anteprima il disegno in copertina (sempre dalla mano prodigiosa del nostro fumettista Mario Perrotta) del nuovo libro di Dan Fante. Ricordate come sempre di commentare, votare e segnalare i racconti che più vi piacciono. Saluti dalla redazione...

LA GENESI, E ALTRE INDISCREZIONI RIGUARDO DIO di Luca Maiolino



Salve a tutti! Mi chiamo Tommy e sono un puntino nero che se ne va in giro lungo un foglio. Il foglio è bianco e si estende all’infinito, ed io ci corro sopra a più non posso, finché non resto senza fiato. Allora mi fermo e faccio pausa per un poco. È una dannata vita in corsa la mia! Sto tutto il giorno assieme ai miei amici supervelocissimi, che sono tre puntini neri tali e quali a me: siamo sferici e veloci, e la nostra corazza nera risplende quando incrociamo per caso un raggio di luce che proviene da ovest. Siamo dei puntini coi fiocchi noi! Io sono nato un giorno chissà come, neanche i miei amici ne sanno niente. Lucio, uno di loro, per un certo periodo aveva sostenuto che l’artefice di tutto fosse Dio. Ve lo dico io chi è stato, ripeteva in continuazione. Si tratta del gran capo in persona, è proprio di lui che sto parlando. Ma Franz, che era un altro puntino nero uguale a noi, pareva essere in possesso di informazioni molto riservate, e bisbigliava con grande cautela.- È impossibile, vi dico. LUI deve ancora nascere. Lo so per certo. Ci vuole tempo per queste cose. Serve la giusta dose di sentimenti negativi, non dimenticatelo; altrimenti, a cosa mai ci servirebbe un Dio? -Lucio non era molto entusiasta di questa versione, ma dopo un po’ se ne convinse anche lui, mentre per July il dibattito era del tutto indifferente. Io seguivo la sua linea, soprattutto perché July mi piaceva parecchio. Non me ne fregava niente delle questioni teologiche a me, volevo solo spassarmela con July.
Da qualche tempo ci eravamo scelti un nome per ciascuno, perché ci era sembrata una cosa carina da fare. Prima che arrivassero i nomi era parecchio deprimente qui. Ognuno rotolava per conto suo da una parte all’altra del foglio e siccome ciascuno era uguale a tutti gli altri, finiva per sentirsi “tutti gli altri”, e questa sensazione faceva sì che a nessuno venisse voglia di fare amicizia. Ma quando decidemmo per i nomi, tutto divenne diverso, perché a un certo momento ognuno di noi ebbe qualcosa di unico che poteva essere condiviso con gli altri puntini, e ogni puntino desiderava ottenere quel qualcosa dagli altri. Iniziammo a sentirci un’esplosione dentro, e sapevamo che quello era il nostro carattere che si andava formando. Così stringemmo amicizia e da quel giorno rotolammo sempre in gruppo. Un problema però rimaneva: pur essendo cambiati dentro (nel nostro animo, per così dire), nel fisico continuavamo ad apparire assolutamente identici, per cui ognuno conosceva il proprio nome ma nessuno poteva essere certo del nome dell’altro. Ci toccava sempre chiedere, per sicurezza.
Un giorno chiesi a July se era veramente July, e quando mi rispose di sì la portai a fare un giro noi due soli, con Lucio e Franz che ci tenevano d’occhio da lontano. Erano gelosi, quei due, ma sapevano come giravano le cose e non giravano certo dalla loro parte. Lei era di fronte a me e io ero di fronte a lei. Sentivo che stava per succedermi qualcosa di assolutamente nuovo ed eccitante, e capivo che July desiderava farlo succedere alla svelta, glielo si poteva leggere sul riflesso magnetico della corazza, ma proprio in quel momento, nell’istante prima che i nostri corpi si sfiorassero, mi resi conto delle terribili ambiguità che quella situazione si portava dietro. Mi ricordai, infatti, che la scelta dei nomi era stata del tutto arbitraria. Voglio dire, come facevo a sapere che si trattasse davvero di una “July” e non stessi invece per avere un rapporto ravvicinato con un “Carlo” o roba del genere? Maledizione, non c’era verso di controllare. Per cui, dominato da un’ansia cosmica, intimai alla presunta July di starmi lontano, altrimenti ti riduco in un cubetto bello e pronto, le dissi. Lei si spaventò e questo mi fece sentire in colpa, così le dissi, va bene, se proprio vuoi restare, accomodati, basta che stai ben attenta a non toccarmi. Però lei volle allontanarsi lo stesso, anzi, sospetto che quelle mie dichiarazioni non fecero altro che turbarla ulteriormente, piuttosto che ricondurla ad una nuova e sana calma spirituale, risultato che invece mi sarei aspettato di ottenere. Voleva passeggiare un po’ per conto suo. Disse che le serviva del tempo per pensare. Si trattava forse di un tentativo per dimostrare una volta per tutte la sua femminilità, siccome soltanto da una donna poteva provenire una richiesta tanto sciocca? Devo ammettere che ci pensai, ma arrivai alla conclusione che non valesse la pena rischiare. Mentre rotolava via mi indicò un punto bianco nel quale ci saremmo rincontrati più tardi. Ma siccome non aveva niente con cui indicare (perché ancora nessuno aveva inventato le dita) e anche se ci fosse riuscita avrebbe indicato un punto bianco identico a tutto il resto del foglio, finì che July non tornò mai più indietro, nonostante io avessi continuato ad aspettarla per tutto il tempo. Quando spiegai la storia ai ragazzi, quelli volevano farmi il culo. Erano incazzati sul serio, perché dicevano di essere tormentati dalla prospettiva della solitudine eterna che attendeva la nostra amica. Balle!, dico io. Erano tormentati dal pensiero di non potersela più ingroppare, ecco cosa. Cercai anche di illuminarli sulla faccenda dei nomi ma non servì a niente, con due ottusi come quelli. Per cui avevo questi due puntini alle calcagna pronti a farmi la pelle, e io ero solo soletto in mezzo a un foglio. Erano cazzi!, anche se non sapevo bene cosa fossero.
Il primo ad attaccare fu Franz, che prese una breve rincorsa per poi venirmi addosso a tutta birra, speronandomi su di un lato. Volammo entrambi in direzioni opposte, per poi ricascare dentro il foglio. Io uscii incolume dall’urto quasi per miracolo, mentre Franz si ritrovò una fiancata solcata da una profonda linea grigia. Per poco non mi faceva fuori. Un centimetro più al centro e, puff, addio Tommy, il giovane puntino nero e sexy. Non potevo crederci. E quelli, fino a poco prima, erano i miei amici! I miei unici e più cari amici! Già il prossimo attacco sarebbe potuto risultare letale. Ero spaventato a morte.Vidi che anche Lucio stava per prendere la rincorsa, rotolando lentamente all’indietro. Poi sembrò esitare e infine si fermò. Capii cosa stava succedendo, ringraziando il cielo. Anch’io avevo provato un grande senso di comunione con Lucio, nel momento in cui Franz era diventato un puntino nero con una linea grigia disegnata su di un lato. Io non avevo linee grigie e sapevo che neanche Lucio ce le aveva, e questa semplice considerazione bastava a farci sentire molto più uniti. All’improvviso entrambi desideravamo ardentemente fare fuori Franz, e anche a Franz gli sarebbe piaciuto metterci le mani addosso, ma lui era l’unico puntino zebrato di tutto il foglio e non poteva fare un accidenti di niente. Così io e Lucio iniziammo ad inseguirlo, e quando riuscimmo ad acchiapparlo l’avevamo già stretto sui due lati, e con una gran rincorsa lo schiacciammo nel mezzo. L’impatto fu terribile e noi tutti esplodemmo all’istante, allargando noi stessi all’infinito sull’intero foglio, che divenne così un’enorme macchia nera senza più confini percepibili. Non eravamo mica morti però! Ma fu ugualmente molto triste perché, anche se esistevamo ancora, bisognava ammettere che non avendo più limiti corporei a definirci come figure, diventava difficile anche solo sapere dove fossimo, per cui finimmo per pensare alla morte in maniera quasi ossessiva. Un giorno lo pensammo così intensamente che morimmo per davvero e poi ci fu il nulla pieno di disperazione e da quel nulla, addensatosi in una grande palla trasparente, nacque Dio. Come prima cosa, Dio, aprì i suoi due occhi verdi, e vedendosi solo soletto in mezzo al nulla, si spaventò.
- Per Dio!- disse Dio - Questa è la fine!-
E invece il bello stava soltanto cominciando.

SAFARI NUCLEARE POST ATOMIC KISS di Hotel Messico



Lasciate stare le strisce pedonali, i semafori, la raccolta differenziata, i vicini silenziosi, se vi sparano nessuno dirà che non eravate un bravo ragazzo. Se la polizia viene ad arrestarvi le donne del vostro condominio scenderanno in strada e sputeranno in faccia ai poliziotti. Lasciate stare le canzoni di Tiziano Ferro e Biagio Antonacci e cominciate a imparare nomi come Raffaello e Ida Rendano. Lasciate stare le televisioni di stato, la Mediaset, Sanremo e cominciare a memorizzare sui vostri televisori Napolipiù e Televolla. Abituatevi a quelli che vendono eroina sul vostro ballatoio, fuori il vostro ascensore, all’ingresso del vostro garage. Prima o poi ne comprerete anche voi. Prendete posizione, con o contro gli scissionisti di Secondigliano. Andate a vedere i gigli a Barra e fatevi crescere il pataniello sulla spalla. Occupate una casa nel lotto zero a Ponticelli e parlate male dei Rom. Compratevi la felpa Baci & Abbracci, il Nokia N70, le Nike Silver e i Rayban a goccia. La cerimonia del vostro matrimonio non può finire prima delle cinque del mattino dopo l’intervento di dieci cantanti. Fate un video con il cellulare facendo finta di sparare un vostro amico, metteteci la colonna sonore de Il camorrista e mettetelo su Youtube. Vostra sorella lavora in una fabbrica di borse a San Giuseppe vesuviano e prende duecento euro. Al mese. Vostra sorella fa la sciampista in un parrucchiere al rettifilo e guadagna duecento euro. Al mese. Vostra sorella lavora in un’impresa di pulizia al Cardarelli e prende due cento euro. Al mese. Parlate male dei metallari di piazza San Domenico e dei punk di Piazza del Gesù. Fatevi due lampade a settimana, fatevi di cobrette a dieci euro. Comprate il fumo al terzo mondo, a Pazzigno, nella Duchessa, nella Sanità, a Resina, al rione Traiano. Comprate il cinquanta pollici lcd all’ipercoop di Afragola, il navigatore satellitare per la Smart, il dolby 5.1 ed alzate il volume su Il capo dei capi. Decidete di fare una rapina a Via Luca Giordano, decidete di farvi una macchina a via Cilea, decidete di farvi un SH da sotto una ragazza a Piazza Arenella. Abitate a San Giovanni a Teduccio, a Via Stadera, a Materdei, al Rione De Gasperi, alla Gescal, all’Inacasa, alla centosessantasette. Andate in pellegrinaggio alla Madonna dell’arco, camminate con uno stendardo con le banconote appese, pregate Padre Pio prima di fare un omicidio. Chi sono questi ai semafori con la faccia marrone, perché non se ne tornano a casa. Voi non andate da loro a lavargli i vetri. Chiedete i soldi ai commercianti del vostro quartiere per le luminarie, i tappeti, le stelle di natale, per le famiglie dei carcerati, per quelli del sistema, per la Madonna, per i tossici, dite che vi manda Antonio o’Russ, Gennar o’Criminal, Pasquale Bum Bum. Fatevi i cazzi vostri, non guardate la gente per strada, non fermatevi se vedete uno per terra, guardatevi da chi vi cammina dietro, guardatevi l’orologio, il cellulare, la borsa, la macchina, gli occhiali, vi fate fare uno squillo quando le vostre ragazze rientrano in casa perché state in pensiero. Comprate un orologio rubato, un cellulare rubato, una borsa rubata, un portatile rubato. Si sono fatti un camion di Nike, un camion di macchine fotografiche, un camion di occhiali da sole. Per strada ci sono i rifiuti di tre settimane. Ci sono più topi che mosche. Da stamattina l’elicottero della polizia sta sopra il bronx di San Giovanni che cazzo vogliono questi. Finti invalidi, finti impiegati del gas, finti carabinieri al posto di blocco, borse finte, film pezzotti, sigarette di contrabbando, Barbie pezzotte. Ti aspetto fuori dalla discoteca, fuori dalla scuola, fuori dallo stadio. Andate a molestare i ricchioni a Gianturco, le nere sotto il ponte dello scasso, le polacche fuori la Mercedes. Vostro padre se ne’è andato con una polacca che stava alla ferrovia se la incontrate la uccidete.

DOMENICA POMERIGGIO di Luca Soldi



Dimentico le carte,
nella stanza col parato c’è l’armadio di legno chiaro, una fotografia della scorsa estate che dondola e tutti seduti attorno al tavolo , il sole sul deck, chiamami Fidelio chiamami ora che ho tempo e il balcone mezzo dentro e mezzo fuori è fresco, è estate Fidelio, è un brano che abbiamo sentito insieme ma poi tu mi hai fatto capire che bisogna scegliere, che la scogliera lontana è rimasta immutata , sono io che cambio, però quelle incessanti formiche che non scaccio, battere le mani alla frase shock alla frase nuova alla musica vecchia alle reni che vogliono riposo, dimmi come sei Fidelio, sono anni che vorrei capirlo, ed è domenica pomeriggio, come non è mai stato, in quelle tapparelle ci nascondiamo io e te compagno mio … una poltrona calma ed il quadro dei bagnanti, ti verso un bicchiere di whisky senza ghiaccio ed avvertimenti e spero di stordirti e sorprenderti, tu racconti e i posti piccolissimi anfratti riverberi e le barchette di plastica solitarie mentre gli altri tutti gli altri si divertono con i capelli biondi, dopo vengo anch’io , perché non mi credi, l’estate è lunga e c’è posto per tutti , per i tuoi sorrisi accattivanti. E spiegati per me, per tutti che guardano il tuo ultimo show

Il ritornello si inerpica il sole lima e le case mie tutte aperte, le domande che restano e la coscienza in diesis

Non stona Fidelio, stavolta fidati tu e l’altro amico tuo

LIVE di Cattive Inclinazioni



La serata è magnifica.
Il palco dello Shea Stadium di New York è immenso e davanti a noi ci sono cinquantamila persone in attesa di sentirci suonare. Il colpo d’occhio e le urla fanno venire la pelle d’oca. Ma qualcosa non va, la band non gira ed io sono incazzato nero. Joe Strummer e Mick Jones si beccano come galline impazzite, Paul Simonon se ne sta in disparte fregandosene di tutto e Topper Headon, come al solito, è strafatto di eroina.
Qui va tutto a puttane.
Ma i Clash sono io figli di puttana, mettetevelo bene in testa e se stasera non suonate come dio comanda, vi butto giù dal palco a calci in culo.
Imbraccio la mia fidata telecaster, il volume è al massimo. Gli altri finalmente si piazzano al loro posto, in attesa di un mio cenno per cominciare. Brutti stronzi, con voi farò i conti dopo il concerto.
Si va in scena e partiamo con Should I stay or should I go, sono solo due accordi ma il riff che ne vien fuori è devastante come un pugno nello stomaco. Questo pezzo, un po’ mods e un po’ punk, fa resuscitare i morti ed è il massimo per aprire la serata.

…Darling you gotta let me know Should I stay or should I go?...

La folla è in delirio, meglio di così non potevamo cominciare. Ci do dentro con le plettrate e pure gli altri non si risparmiano. Salto e corro come un indemoniato e con la mia chitarra sferro fendenti a destra e manca.

…This indecisions bugging me Esta undecision me molesta…

Lo stadio s’è incendiato. Sudo sangue e sputo rabbia e sul pubblico vomito tutta la mia adrenalina. Sotto il palco pogano che è una bellezza. Sono il re del rock’n roll e qui comando io: voglio vedervi sballare, ammazzarvi di botte e stramazzare al suolo sanguinanti, perché è così che si fa.

…Me tienes que desir Should I cool it or should I blow?...

Il pezzo è finito. L’ovazione della folla spacca i timpani più dei decibel dei nostri marshall ma mentre mi godo il momento, la porta della mia cameretta si apre. Sull’uscio appare l’enorme figura di mio padre in mutande e canottiera, ha la bocca sporca di sugo e lo sguardo rabbioso e avvelenato di chi s’è alzato da tavola mentre stava mangiando. Io rimango impietrito dalla paura. Si avvicina a passi lenti e con una faccia che non promette niente di buono. Allunga la mano dalle dimensioni esagerate, io chiudo gli occhi all’istante. Sento il volume dello stereo abbassarsi e quando riapro gli occhi me lo ritrovo a dieci centimetri da me. Ansima dal naso come un toro alla corrida.

Se ne va sbattendo la porta. La stanzetta trema sotto un terremoto del quinto grado della scala richter e dalle mensole cadono ninnoli e suppellettili. Spengo subito lo stereo perché quando fa così è meglio non contrariarlo. Tolgo il disco dal piatto con cura estrema e lo infilo nella custodia di cartone, questo bootleg del concerto dei Clash al Shea Stadium mi è costato un occhio della testa ma ne è valsa la pena. Domani, però, metto su The song remain the same, il live dei Led Zeppelin, poi imbraccio la mia mitica Gibson Les Paul e così vediamo chi la spunta tra me e quel frocio di Jimmy Page.
Si, voglio proprio vedere.

MATURI ALLA VOLTA DELLA CALABRIA di Dario Cioffi



Mese di luglio, ultima decade, ripescare la data precisa sarebbe al momento impresa ardua ma dato che so che pur senza saperla stanotte dormirete lo stesso, sorvolo e vado oltre. Dodici ragazzi, neo diplomati, tutti presso il “magico” liceo scientifico “Francesco Severi” di Salerno (classe quinta Q, doveroso sottolinearlo), decidono di festeggiare con una settimana di vacanza in un villaggio turistico la propria ormai consacrata maturità. A loro (cioè a noi) si aggiungono due graditi “intrusi”: Flavio, all’epoca il fidanzato di Gabriella (una delle tre donne al nostro seguito, nonché persona a me tanto cara), ed Amedeo (per tutti “il Mesale” – che tradotto in italiano vuol dire “tovaglia” da cucina – soprannome affibbiatogli in maniera che definire geniale è riduttivo da un Carabiniere dinanzi lo stadio “Arechi” dopo una perquisizione al suo zaino prima di una partita della Salernitana, che aveva fatto emergere dal fondo della borsa di Amedeo qualcosa come quattro-cinque panini – per 90’ di partita parevano esser abbastanza). Quel viaggio in Calabria, al quale stavo pensando praticamente da due anni, fu davvero un’esperienza esaltante, esilarante, comica, come del resto gran parte di quel quinquennio indimenticabile vissuto al liceo.
Prima della partenza organizziamo le camere, suddividendoci in tre appartamenti. Il primo, per le tre ragazze: la già citata Gabriella, Maria (detta “la legge” per i suoi continui riferimenti giurisprudenziali, inutile dirvi oggi a quale facoltà universitaria sia iscritta…) ed Alessandra, ragazza tranquilla e simpatica che – a posteriori – posso affermare che se avesse vissuto un po’ meno lungi dalla nostra “bolgia” scolastica sarebbe stata apprezzata sicuramente di più. Secondo appartamento, e qui so di non essere in grado – con le poche righe che ho a disposizione – di render sino in fondo giustizia alla complessità dei personaggi. Ci provo. In bungalow insieme ci sono: Virginio (soprannominato “il testone”, mio “collega” rappresentante d’istituto nell’ultimo anno di scuola, di lui al mondo è stata fatta un’unica copia – e meno male! –, non dimenticate il suo nome perché ci ritornerò in seguito); Enzo (a primo acchito sembra “l’eterno scontento”, l’uomo che non ti dà mai ragione ma che se ispirato sa farti morire dalle risate); Giorgio (“il Pompele”, questo il suo cognome, è il fido socio di Enzo, più serafico e tranquillo…tranne quando inizia a praticare il suo sport preferito: bere!); Giovanni (detto “il ragioniere” per l’abbigliamento mai fuori posto, il più timido forse, l’evoluzione della sua personalità è stata nel tempo un crescendo rossiniano, ragazzo generoso e sempre disponibile) ed il già citato Flavio (soprannominato “Abù” per la carnagione scurissima e per il fatto che l’ottima Gabry lo chiamasse a rapporto per portarle le valigie manco Flavio, eccellente ballerino di latino-americano e roba del genere – sono troppo neofita per entrare nel dettaglio –, fosse stato davvero uno schiavo del continente nero). E qui, finalmente, arriviamo alla mia stanza. Come sempre, la più numerosa: una “quintupla con letto aggiunto”, accezione inventata da noi, ovviamente. Il gruppo si compone dei seguenti elementi: Dario (mio omonimo e “fratellone” acquisito, un “gigante buono” di un metro e novanta per centotrenta chili – oggi forse qualcosa in più –, nella vita fa il pallanuotista, all’occorrenza il body-guard ed ha la passione per le Forze Armate, anche se ha deciso che non vi entrerà mai); Antonio (altro fratello per me, compagno di classe sin delle scuole medie oltre che di “cortile” abitando nello stesso palazzo, carattere aspro solo in apparenza, in realtà un pozzo di sorprese e simpatia, per qualche anno l’abbiamo ribattezzato “il cantastorie” per la sua attitudine ad inventare credibilissime storie mai verificatesi, oggi fa il poliziotto); quindi c’è Carmine (“lo zingaro felice”, uno che non vuol dar fastidio né vuole riceverne, vive accontentandosi delle piccole cose, un po’ “vecchio” nei modi di fare ma quando sta con noi è una “pariata”); ancora, c’è Mario (“il Saggese”, dal cognome, altro personaggio di rara riproducibilità, più cordiale e disponibile di un missionario, unica pecca un po’ di cultura generale, specie la geografia); il già citato Mesale (al secolo Amedeo) ed infine il sottoscritto.
Fin qui le stanze, progettate per venire incontro alle esigenze di tutti. In loco, ovviamente, sarebbe poi accaduto di tutto ma come non prevederlo in un viaggio di diciottenni neo-maturi?! Ad esempio, Antonio ed il Mesale si sarebbero presi a schiaffi per qualche biscotto (anticipando in maniera clamorosa quella che sarebbe stata di lì a qualche mese una scena-simbolo dell’edizione 2003 del Grande Fratello), Enzo avrebbe criticato il fatto che Flavio si comprasse le prugne con i soldi della spesa comunitaria, mentre Dario – alle 18,30 di ogni giorno –, in lieve anticipo sulle comuni abitudini degli esseri umani, avrebbe iniziato a dar segni di squilibrio sollecitando anzitempo tutti a lasciare la spiaggia al grido di battaglia: “Teng’ fame…aggià ì a cucinà”. Che meraviglia! Ma non è dei fatti in se stessi, succedutisi durante il nostro soggiorno al villaggio “Capo Piccolo” di Capo Rizzuto, che mi premeva parlare. Piuttosto, voglio raccontarvi il nostro viaggio. E che viaggio! Partenza di venerdì notte, ore 2 dalla stazione di Salerno. In treno, ovviamente. I patentati sono ancora pochi e poi, onestamente, quale papà darebbe mai in mano ad un figlio un’auto che parte per un “luogo del non ritorno?!”. Alla stazione, a curare il tutto, c’è il signor Sergio, il papà di Darione – agente di Polizia Ferroviaria – una persona che sarebbe capace di farti sentire al sicuro anche in piena notte tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli partenopei. Il figlio, fisicamente, ha preso da lui! Credo di aver reso l’idea. Virginio, come da prassi, è il più carico di tutti: ha con sé l’immancabile “bonghetto” – lui è un percussionista straordinario – ed una buona dose di altre “sciartapelle” (si chiamano così dalle nostre parti gli oggetti più “futili”) come da consolidato stile. Ci sentiamo tutti un po’ emozionati, per noi è un po’ come un primo – o forse, chissà, l’ultimo – giorno di scuola. L’incanto, però, si rompe ben presto. Quando saliamo sul treno, infatti, a bordo ci attendono svariate centinaia di persone, gettate in terra nei corridoi come profughi che stanno consumando una lunga agonia. Intendiamo subito, insomma, che quello sarebbe stato davvero un vero proprio “viaggio della speranza”. Ma che viaggio! All’inizio, in vano, cerchiamo un posto negli scompartimenti, camminando lungo un paio di carrozze. Che tragedia! Per fortuna abbiamo di che essere allegri perché a salire in cattedra è da subito il mio amico Mesale, che a noi è noto per un piccolo problemino che l’affligge: non ci vede gran che bene. Così, sbattendo qua e là il suo borsone Arena adattato a valigia, il Mesale finisce per non accorgersi di un uomo – nazionalità incognita ma io gioco tutto sull’indiana – che si era beatamente appisolato, disteso di lungo in corridoio. Amedeo (è sempre il Mesale, non dimenticate) prima lo calpesta un paio di volte, poi, dopo averlo bruscamente destato dal sonno, gli sbatte in pieno volto la valigia. Perché? Perché mentre noi tutti siamo divisi tra il riso e la vergogna guardando in faccia il povero indiano, Amedeo non si è ancora accorto di un bel nulla e prosegue imperterrito nella sua marcia devastante, calpestando un altro “presunto” indiano, per sua fortuna meno assonnato del precedente. Evviva la “par condicio”! In cinque-sei, ci appostiamo nell’unico angolo libero del treno: dinanzi al bagno. Le nostre donne trovano rifugio in uno scompartimento – magie dell’esser “femmine” –; Virginio si accartoccia nel corridoio tenendosi stretto il suo bonghetto manco fosse un figlio appena svezzato; Flavio “si pompa” di musica latina ed Enzo è un continuo lagnarsi contro tutto e tutti. Noi, dinanzi al nostro bagno, cominciamo il nostro sport preferito: “mettere a giro” qualcuno. I “bresuott”, nome con cui Darione definisce i calabresi, sono gli obiettivi preferiti. Intanto il Mesale, appostato proprio dinanzi la porta che dà accesso al bagno, viene tartassato dai passeggeri che lo urtano puntualmente per andar a fare i loro bisogni, prima che la diabolica mente di Antonio partorisca l’idea più brillante della notte: cartellone affisso dinanzi la porta con su scritto “bagno fuori servizio” ed il via vai della gente che turbava la nostra quiete per andare a far la pipì diventa solo un antico ricordo. Geniale. Il viaggio è fisicamente parlando massacrante, le valige sono i nostri cuscini di fortuna ma tra battute continue ed un’infinità di risate dai finestrini anche l’alba si fa d’argento (questo è Baglioni, non Dario Cioffi) e la nostra meta pare sempre più vicina. Il treno, fermata dopo fermata, va man mano sfollandosi. Ci raduniamo facendo un mini-bilancio della nottataccia passata in terra, poi lo speaker annuncia il nostro arrivo. In stazione le navette del villaggio ci prelevano – a costi mi par di ricordare salatissimi – e ci conducono a destinazione. Sono le 8,30 del mattino, per avere in consegna le stanze c’è ancora da attendere tanto, meglio dunque posare i bagagli e tuffarsi subito in piscina: “In modo che, almeno, ci sciacquiamo pure…” – così parlò Darione.

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