mercoledì 28 gennaio 2009

Numero di Gennaio


Ragazzi, scusate il ritardo!

XXX di Sanchez


(Le ragazze che incontro parlano una lingua che non comprendo mai fino a fondo)


Trent’anni. Disoccupato. Che condizione del cazzo vero? A trent’anni ancora alla ricerca di un lavoro, un avvenire, un’identità perfino. Invece c’è chi a trent’anni è alla fine della carriera, e l’unico problema che gli rimane è investire i milioni guadagnati. I calciatori sono tra quelli. Vanno forte in Italia i calciatori. Sono belli, aitanti, ricchi, e mettono incinte le stesse ragazze che la mia vicina di casa cerca di imitare, ballando davanti la televisione mentre è l’ora del pranzo – quando sbircio dalla finestra - vestita come una troia bell’e fatta di quindici anni appena. Poche storie. In Italia funziona così. I calciatori sono i vincenti. Gli altri razzolano gli avanzi. E i disoccupati, nemmeno quelli.
Insomma dicevo. Trent’anni. Disoccupato. Ero venuto su a Pescara per un colloquio. Con l’Airone. Per diventare stewart. Da Castellammare m’ero fatto 5 ore di treno per una chiaccherata che si era risolta in meno di dieci minuti con il solito le faremo sapere. Una frase ridicola, soprattutto in quel caso. Perché l’intervistatrice mi aveva fatto fuori dopo due minuti, ma la prassi, sai com’è, mica poteva dirmelo sinceramente.
«Il suo accento mi sembra un po’ troppo napoletano», mi fa.
«Beh, sempre meglio di quello milanese», rispondo piccato.
La tizia, che era di quelle parti, ci rimase male.
«La avverto di una cosa prima di proseguire. I primi tre mesi sono senza paga. È un periodo di addestramento full time. Dalle nove del mattino alle sei di sera. Le spiegheremo le dinamiche del lavoro, incluse cento ore di volo. Il periodo di addestramento si svolgerà a Roma», così se ne uscì la miserabile, come la cosa più facile del mondo.
Dal momento che non avevo nessuno a Roma che potesse ospitarmi, e dal momento che non avevo i soldi per restare disoccupato tre mesi in attesa che mi concedessero uno stipendio, né avevo intenzione di trovarmi un lavoro serale per scoppiare del tutto, restai lì a riflettere che ero salito fino a Pescara per nulla.
Restammo faccia a faccia in attesa che uno dei due dicesse qualcosa. Alla tizia non fregava un cazzo di me. Faceva il suo. Stop. Il ruolo delle parti è crudele. Ed è sempre così. Io di qui ad elemosinare due lire, lei di lì con un contratto sicuro si lima le unghie. Dopo aver scartabellato dei faldoni, finalmente, se ne esce: «Le faremo sapere». Chiusa la porta la stronza s’era dimenticata di me, del mio accento napoletano, e del mio orgoglio.
Tornai per strada. Erano le sette della sera. Faceva freddo. Pescara si trova vicino ai Balcani. Il calore mediterraneo non gli appartiene. Trovai ristoro in un bar. Presi una Beks e mi sedetti a un tavolo.
Essere disoccupati è una situazione del cazzo. Ma questo è nulla confrontato al cataclisma che mi esplodeva dentro. Ero disoccupato da quasi un anno e mezzo, e vuoi che la noia non mi avesse quasi portato al manicomio? Senza far nulla grippi. Se non ci sei portato rischi sul serio d’essere internato. Io non è che dovevo a forza di cose fare qualcosa. M’ero piazzato a casa di mia madre in attesa degli eventi, lei, separata da cinque anni, si faceva la sua vita, io la mia, e andavamo anche a cena fuori. No, non era quello che mi ossessionava. Ma il fatto che molti credono bisogna per forza fare qualcosa per sentirci vivi. E il modo con cui la gente agiva per tenere impegnato il tempo era il vero problema. Questo modo di confrontarsi con gli altri così cinico, violento, spregiudicato. Mi chiedo, perché accanirsi tanto se alla fine vincono sempre i più bastardi, quelli meglio preparati alle battaglie? Io non voglio essere cinico, cazzo. Mi sono accorto di riuscirci fin troppo bene. Quando mi metto a competere divento bastardo, senza scrupoli, e vinco. Perché sto una spanna sopra tutti anche in questo, cazzo. Ecco il motivo per cui preferisco perdere. Mi faccio troppa pena nel vedermi così conciato. A meno di diventare come quelli che seguono i precetti del buon padre di famiglia e fanno tutto quello che devono fare per diventare dei “buoni cristiani”. E nemmeno per il “buon cristiano” sono portato. Posto fisso, auto in garage, routine quotidiana per trent’anni. non fa per me. Eppure tutte le donne scelgono entro queste due categorie di uomini. La donne sono tutte uguali: fatta una certa età battono cassa e si accasano. Con uno o con un altro delle specie è indifferente. Per fortuna non scelgono mai me.
Sono sfortunato. Avrei voluto nascere senza un coglione, o con tre palle, per dare maggiore coerenza alle mie sconfitte e alle mie vittorie. Da disoccupato si riflette anche a questo. Si pensano tante cose quando sei senza far niente. Ti guardi intorno. E ti sembra che sia tutto uguale. Che tutti facciano le stesse cose e che soprattuto ambiscano alle stesse cose. Che siano dottori, letterati, brigadieri o stewart, cercano un buco in ci svuotare, una casa, bella per giunta, con le grate alle finistre, come i gibboni allo zoo, e un casco di banane da infilarsi nel culo.
Nel bar ci sono dei quadri molto brutti con delle voluminose cornici dorate. Ebbi un deja-vu. Ricordo che una sera mi trovavo all’inaugurazione di una mostra d’arte. Era la mia donna che esponeva a dirla tutta. E c’era un professore, un certo cattedratico della Federico II, che avrebbe dovuto aprire la mostra con un discorso e tutto il resto. Era accompagnato da una ragazza, che lì lì credetti sua figlia, fino a che non gli mise la mano sul culo e la baciò in bocca. I due avevano trent’anni di differenza, poco meno. Ma non è questo il punto. Il punto è che lei era un svampita e mi aveva preso a fissare. In effetti ero l’unico abbordabile a quella mostra. Gli altri o reggevano le stampelle, o erano ubriachi, o vecchi, o froci. Questi ambienti di artisti, insomma.
La puttanella aveva occhi leggermente flessi e stupidi, di quelli che per una strana ragione fanno sesso, e di cui gli uomini perdono la testa. Mi passa vicino e avverto immediatamente il suo calore. L’umore forte del suo sesso. Si mette di fronte a me, accanto al compagno/professore che illustra le opere facendo uso del linguaggio più astruso a disposizione in modo che che la cosa assuma un elevato tono culturale. Giochetti a cui non facevo più caso. Faccio invece caso alla tizia che si aggiusta la calza, e se la tira su, lungo la gamba, piano piano. E piano piano solleva la testa lanciandomi un’occhiata. “Ti scopo!” le avrei urlato. Ma non lo feci, purtroppo. Altrimenti avrei rischiato di morire per mano della mia donna. Un’artista troppo gelosa per certe peripezie. Di certo non avrebbe capito.
Dopo gli applausi ci sono strette di mano e la mia donna viene accerchiata dal resto della banda. La tipa coglie il momento e si avvicina a me. La stronza. Mi passa vicino, sfiorandomi appena, fingendo di guardare un quadro, dandomi le spalle. Mi avvicino e le sussurro all’orecchio: «Voglio farti venire dieci volte con la lingua, maledetta baldracca…» Lei non batte ciglio. Allora persi il controllo. Era troppo. Le infilai una mano tra le natiche. Quella pazza manda un urlo forte. Si ferma tutto. Il tempo, lo spazio, gli areoplani. Tutti lì a guardarci. Compreso la mia donna, l’artista, a cui era dedicata l’esposizione. Nel momento migliore la troia mi molla un ceffone, violento, e scappa tra le braccia del professore/papà.
Appena dopo la mia donna mi avvicina, l’artista, quella gelosa, quella a cui era dedicata la serata, e mi molla un altro ceffone, tremendo. Incassai. La fissai negli occhi, nero, e uscii dalla galleria senza fare scene.
A Napoli c’è sempre da fare. Sostai in un bar e comprai una bottiglia di vino. Rosso. Camminando per strada avviai a vuotarla, sorso sorso, fino a raggiungere altri posti pieni di gente. Qualcuno dice Barcellona, Valencia, che belle città. Ma Napoli, cazzo Napoli è un capolavoro. È un dipinto. Un’opera d’arte, sul serio. Da Borgo Marinaro fino a Mergellina ti si ferma il cuore in gola tant’è bella. Allora mi avviai, con la città in fiamme, verso il casino di San Pasquale, e forse chissà dove ancora, in cerca di qualcuno per smazzare il fondo della bottiglia.

ORME NELLA NEVE di Stefano Moraschetti


Ormai la neve stava cadendo più lieve e il vento aveva smesso di ululare tra i crepacci e le gole della montagna.
In silenzio fissavo il mio compagno di scalata negli occhi; quante avventure avevamo condiviso insieme, quante passioni e anche quanta ostinazione e spregiudicatezza ci avevano legato. Eravamo uniti come fratelli, come se fra noi ci fosse stato un nodo da arrampicata,uno di quei nodi a cui tanto spesso avevamo affidato la nostra vita.
Quegli occhi; quante volte mi avevano accompagnato, avevano vegliato sui miei passi e visto il pericolo che incombeva su di me.
Con calma uscii dalla tenda, i muscoli erano un torpore unico e appena mi misi eretto sentii la schiena scricchiolare, come fosse ghiaccio che sotto il peso del mio corpo si incrinava.
Dieci giorni,tanto era passato da quando avevo sentito per l’ultima volta l’aria frizzante sul mio viso senza che questo venisse colpito dal ghiaccio trascinato dal vento. Dieci giorni chiuso tra mura di tela e rannicchiato tra le coperte, cercando in ogni modo di mantenere accettabile la temperatura corporea
Avevo pensato di impazzire, mai avrei creduto che realmente potesse capitare che io e il mio amico potessimo restare bloccati senza possibilità di essere raggiunti per così lungo tempo.
I primi giorni erano passati come uno scherzo, facevamo del sarcasmo sulla nostra incoscienza sicuri che tutto sarebbe finito in fretta, poi dopo il terzo giorno tutto era diventato all’improvviso più difficile, sembrava perfino che il sangue fosse come acqua nelle vene, non avevamo più forza,il cibo cominciava a essere razionato e fuori dalla tenda la montagna urlava e si faceva beffe di noi.
Quanto era stato duro. Quanto era stato difficile. Eppure ora che tutto era passato, mi sentivo più forte, avevo superato il muro che mi era stato posto di fronte, certo, non potevo dimenticare di avere avuto a fianco a me un vero amico, solo grazie a lui ero riuscito a resistere, se fossi stato solo non avrei potuto niente contro l’inevitabile morte che il cielo aveva scelto per me.
Sentendo sotto gli scarponi il soffice manto di neve la osservai ancora un secondo, come era innocua, quando era così, posata sul terreno e distribuita sulla montagna come zucchero a velo su un grosso dolce.
Pensare ai dolci da sempre mi crea un buco nello stomaco, osservai dentro la tenda, preso un pezzetto di carne lo addentai con foga, era fredda e il sangue non ancora rappreso formò un piccolo rivolo che mi scese lungo il mento.
Rimasi un secondo fermo, come statua di ghiaccio, poi mi chinai, presi sotto braccio la testa del mio compagno e mi incamminai verso la vetta.
Eravamo rimasti bloccati solo a tre ora dalla cima, dopo essere stati tanto vicini per così tanto tempo non si poteva rinunciare a raggiungere la vetta.
Lasciai tutte le cose superflue al campo, tenda, zaino, ramponi, piccozze, corde, braccia, gambe, ormai quelle non servivano più.
Dopo poco più di due ore e mezza di salita mi ritrovai a guardare dalla parete nord, lo spettacolo che mi si presentava era affascinante, avevo tutto il mondo ai miei piedi, mi girai verso la direzione da cui ero venuto, la tenda non si vedeva sommersa com’era rimasta dalla neve, ma una sottile linea rossa saliva verso la cresta e si fermava ai miei piedi formando una macchia informe.
Lungo le ultime vertebre colava ancora del sangue, non ero riuscito a tranciare di netto la colonna vertebrale e questa pendeva ancora come una lunga coda dal cranio del mio compagno.
Con calma raccolsi le mie idee e con il mio dolce peso sotto braccio saltai verso il vuoto che mi si apriva dinnanzi.
In lontananza mi sembrò di sentire la montagna ridere, mentre cadevo per non rialzarmi mai più, dietro me solo orme, orme nella neve.

EIACULAZIONE MISTICA di Marco Smorra


Non riusciva a capacitarsi di quello che le stava accadendo. Maurizio le stava seduto a fianco, sulla poltrona, con il pisello dritto, tanto irto da apparire un fenomeno innaturale.
Era quasi mezzanotte e la serata, trascorsa a bere vino condito con ammalianti inutili discorsi tra amici-conoscenti, occupava nei loro cervelli l’area dei ricordi a breve termine, che una buona dormita avrebbe completamente cancellato.
Ora lui le era accanto e quello che le stava accadendo avrebbe potuto occupare le pagine più pateticamente poetiche del suo diario segreto. Grazia annotava tutto quello che le accadeva in quei suoi fottutissimi quaderni, da quando, a tredici anni, aveva letto il 'Diario di Anna Frank'. Aveva deciso che il suo dolore quotidiano era degno di annotazione, comparabile a quello di un’adolescente alla quale era stata strappata la vita come uno sbudellamento lento e meticoloso, senza anestesia.
Il lavoro di persuasione di Maurizio era riuscito brillantemente:
“Dai, fammi salire da te, solo cinque minuti!. Il tempo di chiacchierare ancora un po’ e poi andrò via!”.
“No, dai…s’è fatto tardi, possiamo vederci domani!”.
“Come vuoi, ma è un peccato”.
“Ok, solo cinque minuti però!”.
Intanto Maurizio le accarezzava i capelli, con una delicatezza ed una voluttà che lei, in tutta la sua vita, aveva solo potuto assaporare raramente ed in solitudine. Come in quelle poche notti che le era risultato davvero difficile non consumarsi il clitoride con il dito medio della sua piccola e nerboruta mano sinistra.
Non provava una tale attrazione per un maschio, da quando alle superiori s’era innamorata di Giuseppe, uno splendido ragazzo dalla dentatura perfetta, capoclasse, sempre in ordine, con un tale consenso tra i coetanei che già dall’ora era chiaro a tutti che da adulto avrebbe occupato senza difficoltà la poltrona da sindaco di Casamale.
Maurizio non aveva nessuna voglia di rincontrarla, aveva solo voglia di giocare con quella curiosa figura di donna. Non intendeva mancarle di rispetto, ma avere davanti una vergine di trentasette anni, lo eccitava da morire. Grazia, dal canto suo, sentiva l’odore di giovinezza di Maurizio e quell’odore era tanto forte da mettere in discussione tutti i precetti inghiottiti in trent’anni di devozione alla parrocchia del paese.
Mauri, così lo chiamavano tutti, aveva ventisei anni, di bell’aspetto, trasandato. Aveva uno stuolo di le ragazze che continuavano a cercarlo, nonostante il suo disinteresse per i rapporti impegnativi. Questo Grazia lo aveva appurato dalle continue telefonate ricevute durante la serata, seguite da un suo cordiale rifiuto:
“No Chiara, stasera non ci sono, sono in giro con amici”. “Magari domani Anna, come?...ah scusa Anna…stasera vorrei tornare a casa presto”. E formalità del genere.
Quella sera Grazia era agghindata per le migliori occasioni. Era un ragazza estremamente curata, depilata e levigata, da fare invidia al migliore ritocco con il photoshop , odorosa, tanto da non avere bisogno di costose fragranze per saturare l’area di corteggiamento. Preservava bene il suo corpo, evitando accuratamente di prendere la patente, perché preferiva camminare a piedi. In realtà non sarebbe mai riuscita a superare il trauma del primo spegnimento del motore per inesperienza nell’utilizzo della frizione.
Dopo il primo bacio, che Mauri era riuscito a strapparle senza difficoltà, il cazzo gli si era indurito tanto da sentirsi in diritto di sbottonarsi il pantalone per estrarre la sua mercanzia. Grazia guardava fisso il nervo ed arrossì, non per le dimensioni, ma per la naturalezza con la quale lo avevo estratto.
La casa di Grazia era pervasa da un odore, non cattivo, ma che sapeva di vecchiaia. I suoi erano morti da sette anni, a poca distanza l’uno dall’altro, ma lei non aveva osato sfiorare nulla in quella casa nient’altro che la polvere, accumulata sui cimeli, rimossa con quotidiana meticolosità. Continuava a dormire nella sua angusta cameretta, che un tempo condivideva con la sorella, ormai sposata da cinque anni. Maurizio non si accorse di quell’atmosfera di antiquariato, altrimenti sarebbe scappato. Aveva tanta paura della morte e della vecchiaia che niente, se avesse riconosciuto il tanfo di stantio, l’avrebbe potuto trattenere in quella casa.
Grazia, in quella situazione imbarazzante, avrebbe voluto liberarsi di Mauri in un secondo, per poi correre nella sua stanza a pregare sottovoce la madrevergine per invocarne il perdono. Ma ormai era tardi, sapeva che non sarebbe riuscita a liberarsi di lui così facilmente. Era troppo eccitato per staccare il culo da quella poltrona.
Le effusioni che si scambiavano sembravano più una lotta che un corteggiamento, ma non era stato difficile sbottonarle la camicetta bianca, che appena le arrivava all’ombellico. La carne scoperta di Grazia aveva davvero un buon odore che eccitava Maurizio. I trentasette anni di quella donna erano annullati dall’adolescenza della sua pudicizia.
Maurizio, per quanto eccitato da quella situazione, provava una certa compassione per lei. Fiutava il suo imbarazzo, la delicatezza dei suoi no, fai piano, ma era tardi ormai, non poteva gettare la sua serata senza poter svuotare le palle del suo liquido prezioso.
Con uno scatto armonioso Mauri riuscì a farla stendere sul divano e braccarla con il suo corpo pesante. Tentava di essere delicato, ma doveva un qualche modo ammansuetirla. La gonna di cotone di Grazie lasciava ormai posto alle mutande di pizzo delle quali non si riusciva ad indovinarne il colore. Grazia aveva evitato di illuminare tutta la casa, accendendo solo il piccolo lume posto sul un tavolino di fianco alla poltrona. Non voleva assolutamente che qualche vicino potesse immaginare che stesse ospitando qualcuno, magari un uomo, a quell’ora di notte. Lei, devota alla verginemaria, non poteva mancare di rispetto al lutto che affliggeva la sua casa!.
Ma ormai Mauri le era sopra, con il suo nervo che premeva tra le grandi labbra. Comprendeva la sua contrariata eccitazione, tanto che gli parve premere il cazzo contro una spugna imbevuta di acqua e sapone. Grazia continuava a respingerlo ma il piacere le saliva al cervello, ma non riusciva al liberarsi completamente dei precetti che continuavano a dare una forza straordinaria a quella piccola mano sinistra, che proteggeva il suo sesso dal nervo vigoroso di Maurizio.
Dopo un quarto d’ora di tentativi Mauri decise di cambiare strategia e concentrò le sue forze tentando di spingere il capo di Grazia all’altezza del pisello. In una contorsione disumana Mauri vinse la repulsione nervosa del collo di Grazia, avvicinandole il pisello fino alle labbra. Lei, nonostante fosse contrariata, avvicinava la bocca al glande, ma con un movimento simile a quello di una colomba alle prese con una mollica di pane troppo grande per il piccolo becco.
Dopo mezz’ora erano entrambi stremati. La faccia di Grazia era stravolta. Alternava lo sguardo di paura a piccoli sorrisi. Non provava disgusto, ma le sembrava già abbastanza, tanto da poterlo liquidare e sprofondare in un sonno tranquillo, preceduto da un veloce e meccanico attodidolore.
Ma Mauri non intendeva assolutamente abbandonare la casa della vergine. Ci furono dieci minuti di tregua. E lui notò la faccia di Grazia quasi estasiata. Lei era distante mezzo metro da lui, con le gambe chiuse ermeticamente, ma scoperte, ed il seno destro era straripato dal reggiseno.
Mauri la guardava ed il nervo pulsava dall’eccitamento. Con la mano continuava, più che a cercarla, a calmarla l’affanno ritmico che le gonfiava il petto. A Grazia erano rimasti gli occhiali da miope incollati al viso, che le ingrandivano gli occhi, che le davano ancor più un’aria innocente. Un sentimento di colpa invase l’anima di Maurizio. Perché mai avrebbe dovuto continuare a profanare quella giovane e delicata donna. Era sicuro che Grazia avrebbe impiegato mesi per assimilare quella nottata.
Ma l’istinto predominante gli diede nuova foga ed in un frangente gli balzò nuovamente addosso. Ma questa volta le si mise a cavalcioni sulla pancia e le serrò le braccia con la sua robusta mano sinistra. Grazia non capiva cosa le stava accadendo e Maurizio, dopo averla immobilizzata, iniziò a masturbarsi con la destra. Lei gli disse: “Ma cosa stai facendo?. Dai smettila!. Non mi piace che fai così!”. Ma il movimento sussultorio della mano di Maurizio s’era orma impossessato della sua coscienza e fissava ardente la faccia di Grazia che non riusciva a staccare gli occhi dal nervo di Maurizio. Lui biascicava piccoli gemiti, sapeva che di lì a poco sarebbe venuto, tanta era l’eccitazione. Prima degli ultimi colpi assestati al nervo, si inarcò fino ad azzeccare il pisello alla faccia di Grazia, e la sua mano colpiva ritmicamente il mento di Grazia. Si, si, oh…si….ahhh…!!!
Gli venne in faccia con un vigore che avrebbe ricordato per tutta la sua vita. Il suo seme zampillò potente sulla faccia di Grazia, inondala dalle labbra, su per il viso, fino agli occhiali. Negli ultimi istanti che precedettero l’eiaculazione, Grazia sembrò sibilare un gemito di piacere, ma Mauri non era sicuro di averlo sentito. La faccia di Grazia si colorì di una strana espressione, che non era né di disgusto ne di piacere, ma simile all’appagamento. Dopo essere venuto Mauri si stese sul corpo di Grazia fino ricoprirla per intero. Le mani di lei, ormai libere dalla morsa, si profusero in un abbraccio tanto energico che Mauri non riuscì a capacitarsi che un così esile corpo potesse sprigionare tanta forza.
Stettero in quella posa, inermi, per quasi dieci minuti, dopo di che Mauri si rialzò e si ricompose occultando il nervo nelle mutande, ormai ridotto a poca cosa. Grazia non disse una parola e si passò la mano sul viso, testando la sostanza liquida che la ricopriva ed ingoiò, con sforzo, per la gola secca; sembrò quasi stesse saggiando il seme di Mauri.
Maurizio ormai s’era rivestito. Un sentimento di angoscia lo assalì, mentre tentava di indovinare i pensieri di Grazia. Le disse, con la consapevolezza che quel che diceva non sarebbe mai accaduto: “Io vado s’è fatto tardi, ci sentiamo domani”. Lei non disse una parola.
Maurizio usci dalla sua casa, un bel po’ turbato. Scendendo le scale si trovò di fronte il loculo del palazzo, debolmente illuminato, che conteneva la statua della vergine, che prima non aveva notato. Stette qualche istante ad osservarla e poi, quasi senza rendersene conto, si fece il segno della croce e recitò un atto di dolore, sbagliando anche le parole sostituendo ‘molto più’ con ‘e per di più perché ho offeso…’
Grazia rimase stesa sul divano. Aveva ancora sul viso i segni dell’eiaculazione. Ora era sola. Gli venne da ridere, mentre le sgorgavano due piccole lacrime che evaporarono prima di arrivare al collo. Ma si sentiva libera, come sollevata da un peso, ma quel sollievo non era dovuto all’assenza di Mauri.
Sentì il portone del palazzo richiudersi. Si apprestò alla finestra, scostò un poco le tende e vedendo quel ragazzo con il capo chino avviarsi all’uscita del viale sospirò: “A presto piccolo mio, grazie”.

COPERTINE di Corrado Izzo


Frutta di Francesco Trombadori da La stagione della caccia di Andrea Camilleri , Sellerio Editore Palermo.
Mattino a Cape Cod di Edward Hopper da A ovest di Roma di John Fante, Fazi Editore.
Night Hawks sempre di Edward Hopper da E le altre sere verrai ? di Philippe Besson, Guanda Editore.
Olio su tela di Jack Vettriano da Ad occhi chiusi di Gianrico Carofiglio,Sellerio Editore Palermo.
Io non leggo libri. Colleziono copertine.
Nemmeno li leggo,perché io scrivo incipit per una nota casa editrice. Se qualche autore sotto contratto ha difficoltà ad iniziare una nuova storia,si rivolge a me. Di libri,quindi, ne ho fin sopra i capelli ,se solo i capelli ce li avessi.
Le copertine però mi attirano,non so farne a meno. Così vi voglio raccontare una storia vera.
Il 5 dicembre del 2002 io mi trovavo nei pressi della cassa della libreria Feltrinelli di via S.Tommaso d’Aquino. Mi accingevo a pagare Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati – Oscar Mondadori. In copertina una foto dall’omonimo film del 1960 per la regia di Mauro Bolognini.
Primo piano sulla magnifica schiena di Claudia Cardinale,cui fa da contraltare il pensieroso viso di Marcello Mastroianni.
Da attrice consumata,lei scelse proprio quel momento per entrare in scena,mettendo piede nella libreria. Io avrei voluto dirle che ero felice di vederla,che l’ammiravo tanto. Che ricordavo bene le sue apparizioni ne I soliti ignoti,il Gattopardo,La ragazza di Bube,ma dove veramente mi era piaciuta era in film americano con Rock Hudson di cui non ricordo il titolo , in cui indossava uno strepitoso due pezzi,color arancio.
Sì, Ursula Andress era bella nel suo bikini bianco,ma niente a che vedere con la sua classe,signora Cardinale. Perché se una donna è bella e in più possiede anche classe,beh allora non c’è gara e questo è il massimo che un uomo può desiderare.
Nel suo elegante tallieur - pantalone,circondata dal direttore della libreria e dagli impiegati tutti,con grazia sorrideva ai loro complimenti.
Io mi sono avvicinato e avrei voluto almeno salutarla. Ma non l’ho fatto,e forse è stato meglio. Imbranato come sono, mi sarei sicuramente emozionato. E poi chissà quante volte le avranno detto cose ancor più belle delle mie.
Insomma questa è una storia piccola,signora Cardinale,ma vera. Se,infine, anch’io dovessi cedere alla tentazione e mettere insieme gli incipit,donando forma al “mio libro nel cassetto”, due cose sono certe : il titolo Senza fine, e la copertina, la sua bella schiena,però omettendo il volto di Marcello Mastroianni. Non si può guardare altrove,se la bellezza è sotto i nostri occhi.

MAGARI DIO HA MANGIATO SUA MADRE di Marco Baldini


Sono 48 anni che la gente mi guarda e fa smorfie. A volte ride. Lo preferisco, perché almeno li faccio felici. Però, cioè, non è che mi fa piacere eh.
Sono brutto. Peso 152 kg, c’ho i buchi in faccia per l’acne, sudo come una spugna pure se ci stanno 2° C (mi si fanno i ghiacciolini a volte) e puzzo come un porco.
La gente reagisce sempre così quando mi vede: sbarra gli occhi, alza un sopracciglio, si volta davanti se non c’è nessuno vicino o verso l’amico se è in compagnia, oppure sghignazza o scuote la testa.
Cioè, non sono mica un mostro io. Però c’ho fatto l’abitudine ormai. Io a me mi piaccio eh, mica no. Sono pur sempre una creatura di Dio, perciò sono bello lo stesso. Mica Dio può creare qualcosa che è brutto, cioè, non è proprio possibile.
Però a volte mi sono chiesto se per caso, ma per caso eh, a Dio non Gli piaccio. Mi sono immaginato se Dio mi vede e mi ride in faccia pure Lui, cioè, come la prenderei io?
Forse me ne fregherei pure di Lui, tanto c’ho fatto l’abitudine ormai. Io a me mi piaccio comunque, eh.
Però, cioè, è strano. Dio mi ha creato e poi neanche Gli piaccio? Ma è scemo mica? Quindi Gli piaccio per forza, mica è scemo Dio.
Però pure i preti mi guardano strano quando mi vado a confessare. Anzi, neanche me li fanno dire i peccati a me, e manco l’Atto di Dolore, mi assolvono subito subito. Per carità, a me mi fa pure comodo, mi vergogno a dire certe cose a quelle brave persone. E poi va a finire che non mi vogliono confessare proprio più.
I preti secondo me fanno così perché gli faccio pena. Pensano tipo “Pover’uomo, c’ha tutte quelle disgrazie, santo cielo, lo assolvo subito subito, tanto uno così sfortunato non ci può avere troppi peccati sulla coscienza”. Secondo me fanno così, però non me lo dicono perché va a finire che poi li accusano di fare le preferenze e non va bene, perché gli uomini sono tutti uguali eh, anche se davanti ad alcuni di loro la gente storce il naso. Pure i preti, ma loro lo fanno perché si dispiacciono, mica perché gli fanno schifo.
Però mia madre era diversa. Lei mi sorrideva sempre, pure quando mi facevo la cacca addosso perché non facevo in tempo ad arrivare al cesso. Anche quando scorreggiavo durante la cena o quando c’erano ospiti.
Anche quando l’ho uccisa, sorrideva.
Sì, mia madre l’ho uccisa. Però non l’ho fatto apposta, giuro.
Gli volevo fare uno scherzo, uno scherzetto scemo, così, per ridere. Gli avevo messo una polverina piccante nella minestra, così, per ridere eh, e lei le cose piccanti non le poteva mangiare.
Gli pigliò un colpo, mentre mi sorrideva. Uno shock profilattico, o come si chiamava quella cosa brutta, e cascò con la faccia nella minestra.
Io pensavo che si voleva vendicare dello scherzo e me ne voleva fare uno pure lei. Voleva fingere che era schiattata. E io ridevo pure io per lo scherzo.
Però non l’alzava, la testa, non si muoveva più. E allora ho capito che era morta veramente. Ma io che ne sapevo che se mangiava la minestra crepava? Io volevo solo farla ridere un po’!
Mi sono spaventato. Ho pensato che mi mandavano in galera, dicevano “Ha ucciso la madre, povera donna, che figlio scapestrato!” e cose così. E allora non dovevo far sapere a nessuno che era morta, lei.
Non era difficile perché tanto vivevamo da soli. Papà non l’ho mai conosciuto, io, ci ha lasciati appena seppe che era incinta di me. Quindi la prima cosa che mi era venuta in mente per nasconderla era la cosa che meglio sapevo fare.
La mangiai, pezzo pezzo. Tanto non avevo ancora pranzato. Era buona, sapeva di carne come quella degli animali, lei. E la mangiai tutta, tanto era magra, mica era come me.
Le ossa invece le buttai, mica me le potevo mangiare quelle. E a tutti dissi che era partita e che mi aveva lasciato solo, tanto lavoravo come impiegato.
Però a me mi è dispiaciuto che l’ho uccisa. E non l’ho potuto manco confessare ai preti perché mi assolvevano subito subito.
A volte penso che a Dio non gli piaccio. L’ho già detto, lo so, però quando mi viene in mente mamma ci ripenso sempre. Forse Dio me l’ha lasciata mangiare perché così avevo qualcosa di bello in corpo. Qualcosa con un bel sorriso sopra.
Chi lo sa se ho mangiato pure la sua anima o se Dio se l’è presa prima di me. A me mi sarebbe piaciuto che restava con me.Così almeno mi sentivo meno solo, io.

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