domenica 29 giugno 2008

Numero Di Luglio


Pronto per voi il numero di Luglio del nostro blog, votate, commentate, questa vetrina è per voi lettori e fatene ciò che volete.
Ricordiamo a tutti che è finalmente in libreria il libro di Gianfranco Marziano "Inferno", l'ultima pubblicazione di Ad Est dell'Equatore.

CARDIGAN di Phil Sick


Una moltitudine di ombrelli, uno accanto all’altro… come nei film, una testuggine di nylon nero. Una pioggerellina da funerale e Andrew Degut che indossa l’uniforme da cadetto di West Point, grigia con le bande nere e il cappello da autista di autobus, sobrio come il luogo da dove proviene. Alcune tardone in tailleur muoiono dalla voglia di fargli qualche moina… smancerie al posto delle condoglianze. Si fa finta di niente. Il cadetto è impegnato ad osservare la bara con aria solenne e forse anche un po’ commossa. Magari ripensa a quando il nonno gli comprava il gelato, oppure per un secondo è di nuovo con lui davanti alla tv nel salotto pieno di ninnoli; danno un Western, il pacchetto di nazionali sul tavolino di vetro, il posacenere colmo di cicche… pezzi di Morricone interrotti da un’occasionale revolverata, da un colpo di tosse catarrosa e la nonna intenta a smazzare le carte per il suo solitario napoleonico in sottofondo. Ma forse Degut sogna Tracy Lords o la finale di un Superbowl, dei nachos al doppio formaggio... Lo stanno calando nella terra il nonno, all’interno del sacrario atlantico, con il resto dei camerati.
Gli occhi lucidi del vecchio “Pigafetta” sono azzurri come aspettando lo Tzunami… Alto e curvo, è lì a pochi passi dall’amico… il viso spigoloso, da ligure, proteso verso un’ultima picchiata a pelo d’acqua... rataratarataratà…. E poi gli alti papaveri forniti all’ultimo momento dall’aeronautica: generali da parata con le trippe piene di nastrini e di medaglie. Le mani pelose coperte dai guanti da ordinanza.
Per fortuna la bara è chiusa. Sopra di essa un cappello da colonnello pilota, ma non è il suo. Si tratta di uno fornito dal ministero della difesa…. In fondo sticazzi. Un cappellano militare con gli occhiali appannati farfuglia un mantra cattolico, mentre la manina pingue vibra in aria un’urna legata ad una catenella. Lui a cosa stia pensando non lo so di certo. Un aviere di leva suona il silenzio immaginandosi di essere un trombettista jazz. Anche io farei così al suo posto. L’aria umida è pregna d’incenso ora e prevale sull’odore di terra bagnata, sull’essenza di fiori un po’ vecchi e la poltiglia di aghi di pino. Quando era vivo, il colonnello usava un bagnoschiuma al pino silvestre, la marca l’ho dimenticata, la fragranza no. Io me ne sto un po’ più in disparte perché non indosso nessuna divisa e devo ancora compiere nove anni. Dire che mi piacerebbe indossarne una, di divisa intendo. Mi vedrei bene vestito da ufficiale Gestapo, ma anche se lo chiedessi dubito che me lo permetterebbero… valla a trovare una divisa della Gestapo taglia bambino disturbato... Di certo non c’erano ufficiali nani tra le fila dei soldati del terzo reich. Mia madre qualche ora prima mi chiede di darle il mio pupazzetto di Aquaman per infilarlo nella tasca del blazer nero di mio nonno, così, tanto per fargli compagnia. Non è che la cosa mi alletti poi molto, ma glielo permetto comunque. Sono avvezzo alle sue bizzarrie e poi nonostante la sequenza di prosecchi che ha mandato giù, la vedo abbastanza scossa. Mia nonna scazza con qualcuno per via dei fiori, saranno troppi o troppo pochi? Vallo a sapere. Dopo che il nonno l’hanno bello e sotterrato, andiamo ad ingozzarci in un ristorante di pesce. Le zie si ubriacano, la mamma pure, i vecchi prima ricordano, poi si abbioccano sul tavolo nel bel mezzo delle rimembranze, tra i tagliolini all’astice e la frittura mista. Io studio le diverse epidermidi, le macchie di vecchiaia, le efelidi geriatriche, le dentiere posticce ed i riportini. Mi sballo mica tanto, anzi diciamo pure mi rompo i coglioni. Gioco con i grissini perché Aquaman a quest’ora gioca con mio nonno, o al massimo diciamo che gli tiene compagnia. In fondo mi sta bene, ma non essendo autistico co’ sti grissini mica ci riesco a far nulla di prodigioso, che so, una capannina,oppure un bel hangar sempre in onore di mio nonno… Gli stuzzicadenti, un passo avanti rispetto ai grissini, quelli mi spariscono sotto il naso che questi vecchi nostalgici ci fanno la manutenzione alle dentiere. Mio cugino mi vede fissare una vecchia che ha problemi con la protesi, fa subito la spia così la zia mi sgrida. Un rimbrotto svogliato, ma lui si mette a ridere. L’elaborazione del lutto è varia e agisce per vie misteriose, come quelle del signore. Il signore con la camicia sbafata di astice e mazzancolle…
Nonno non c’è più adesso. La mia eredità consiste di un Cardigan con delle toppe sui gomiti e una macchina da scrivere, una Olivetti non ricordo cosa. Ma non è che me le danno subito ‘ste cose, me le danno qualche tempo più tardi, diciamo pure anni.
Non faccio più la quarta elementare. Piove ancora, ma ci troviamo in un campo nomadi vicino a Roma. Ho le scarpe inzaccherate di fango e dio solo sa cosa, merda di cane, ma anche umana probabilmente. Riesco a non vomitarmi sui pantaloni, che sto già conciato bene così come sono. Mi arriva un odore di fumo di stufa, misto a copertoni bruciati… bruciano tutto quello che trovano questi, anche quando piove. Il tanfo infondo quasi mi piace, perché oramai mi è familiare e vuol dire che sono arrivato. Sono vestito multistrato tipo cipolla, ho pure il cardigan di nonno. Mi ricevono in una baracca piena di bambini, li conosco tutti anche se non per nome. Rispetto a fuori, dove è già calato il buio, fa molto caldo. Al tavolo del salotto, chiamiamolo così, giocano a carte. Sono tutti uomini, ma c’è pure una vecchia che sembra un uomo. Ogni tanto mi sorridono e mi chiedono se voglio della coca-cola per via del fatto che sono un abituale. Accetto, sebbene in questo momento la coca-cola mi fa solo venire da andare al cesso. Me ne sto sul divano a fare il simpatico con i bambini, fin quando madre e figlia riescono a portarmi ciò per cui sono venuto. La figlia è molto giovane, troppo. Sembra la tipa di Alladin anche se ha il culo piatto. A volte mi fa duemila moine, altre mi fa "buffi"che io non ripago quasi mai, dicendomi di non dirlo alla mamma. E’ il nostro piccolo segreto dopotutto…Nella transazione ci va di mezzo anche il cardigan con le toppe. Non che io lo baratti, ci mancherebbe, semplicemente lo perdo. Sono passati vent’anni dal funerale. Esco dalla bisca, mi faccio in una roulotte e mi accorgo di aver perso la mia eredità. Allora ritorno nella catapecchia dove imperversa il pokerino tzigano. Scatta subito una caccia al tesoro, sopra il divano, sotto il divano, tra le sottane della nonna rom,sotto il tavolo da poker... Nessuno ci capisce niente, io meno degli altri. Sta storia del cardigan crea un bello scompiglio. I bambini, la madre, la zia, la sorella, tutti a scandagliare la baracca… Non salta fuori un cazzo. Era meglio se lo lasciavo a casa. A quest'ora c'è una bambina coi baffi, piena di mocciolo, che gira per il campo avvolta dentro al cardigan di mio nonno, con delle zattere sei numeri più grandi e una collana di perle finte…

IL SANGUE DEL CRITICO di Gianfranco Cambosu


Uscì di casa fischiettando. Era contento che fosse finalmente tornato il sole. Voltò l’angolo della strada e si bloccò. Sul marciapiede opposto stava camminando l’ultima persona che si sarebbe aspettato di rivedere. Quanti anni erano passati? Portava ancora i capelli lunghi, raccolti in una coda, che gli condonavano almeno dieci anni. L’ultima volta si erano visti a Firenze, a un festival letterario. C’era anche il suo nome nella lista dei critici letterari più accreditati. Allungando il passo lo raggiunse nel cono d’ombra proiettato dalla colonna marmorea al centro della piazza. Là si era fermato per rispondere al cellulare.
“Vichi, Vichi!” gli urlò. Quello chiuse la conversazione e rimase immobile, i muscoli contratti in una smorfia di stupore o di fastidio.
“Vichi, non ti ricordi di me? Postriboli, Giancarlo Postriboli!”
Dario Vichi si rianimò al suono delle ultime sillabe, le labbra si schiusero a un sorriso di circostanza. “Ah, certo, certo, come stai?”
“Bene, bene. Anche tu, a quanto vedo. Sempre con quella tua aria sbarazzina, eh!” Postriboli si guardò intorno con aria circospetta. Gli ultimi passanti erano stati risucchiati dagli ingressi dei vicoli come spifferi d’aria. Il sole si era dileguato in un pertugio di orizzonte. Dalla tasca dell’impermeabile trasse un articolo di giornale stropicciato e glielo porse indicandogli la fotografia al centro. Era la copertina di un libro. Nella didascalia c’era scritto Il sogno di Postriboli, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Ocram Ihciv . “Te lo ricordi, Vichi?”
Quello scosse la testa a significare un no, non mi pare.
Postriboli non si scompose e di nuovo si guardò intorno. Non c’era più nessuno.
“Davvero non ricordi?”
Dario Vichi sbuffò e adocchiò il rolex al polso.
“Sì lo so, si è fatto tardi” lo precedette Postriboli. “Anche allora era così, ricordi?”
Vichi si rannuvolò. “Temo che tu mi stia attribuendo cose diverse, cose che non mi appartengono. A dire il vero, non sono neppure sicuro di conoscerti.”
Postriboli lo fissò come un predatore al termine della sua caccia. “Non sei sicuro di conoscermi? Prima, però, hai risposto al mio saluto.”
Vichi tentò invano di focalizzare quel volto. Davvero non gli diceva nulla.
“E’ inutile, scusa, che strabuzzi gli occhi: la mia faccia non ti dirà mai nulla. Però dovevi averla in mente quando mi hai insultato.” Prima che l’altro potesse fiatare gli lesse la prima parte dell’articolo. A uno scrittore come Ocram Ihciv che definisce il proprio personaggio “scimmione” io non posso che dire <>. E infatti Postriboli dà l’idea di uno scimmione fuggito da una giungla. Anche Ocram Ihciv, però, dovrebbe far rientro in una giungla: quella degli agenti letterari che tormentano gli scrittori esordienti. Perché da lì proviene…Firmato Dario Vichi.
Vichi spalancò la bocca come se quell’articolo dovesse ingoiarlo. “Che ne so, io? Ne ho scritto di recensioni in trent’anni di carriera e…”
“Vedi,” lo interruppe Postriboli “delle volte voi critici avete una sola esigenza: imbrattare una pagina di giornale o di rivista con una lunga teoria di masturbazioni mentali, e pazienza se per farlo dovete sporcare il nome di uno scrittore e del suo personaggio. Che cosa ve ne frega, in fondo?”
Vichi avvertì un disagio fortissimo. Quella piazza vuota non gli preannunciava nulla di buono. Guardò l’altro negli occhi e accennò un saluto, ma la calibro nove che comparve in quel momento nella mano di Postriboli lo paralizzò.
“Cerchiamo di ragionare” balbettò il critico con le mani che gli tremavano.
“Ragioniamo pure mentre ti rinfresco la memoria. Io sono stato il protagonista di molti romanzi di Ocram Ihciv. Sono stato un commissario di polizia, stimato da editori e lettori finché non ti sei messo di mezzo tu coi tuoi attacchi e col tuo stile denigratorio. Nel giro di un anno Ihciv si è trovato senza più un contratto, con le case editrici che gli sbattevano le porte in faccia.”
Vichi si sentì come un bambino sperduto. Perché quella maledetta piazza si era trasformata in un deserto? “Senti” reagì con stentato vigore “noi critici questo dobbiamo fare, l’hai detto tu stesso. Niente di personale…”
“Niente di personale” lo scimmiottò Postriboli. “Che frase abusata! E tu saresti un critico letterario, uno che vive di parole? Beh le parole, la vita stessa mi sono state tolte a causa tua. Da un giorno all’altro Ihciv si è trovato il deserto attorno. E questa è stata la sua morte come scrittore. Infatti è stato costretto a riaprire un’agenzia letteraria per campare. Solo che la sua morte letteraria ha segnato la mia fine come personaggio: sono rimasto incastrato nella prima pagina di un file, quello che avrebbe dovuto essere il suo nuovo romanzo. Ho urlato come un disperato per continuare a muovermi, perché avevo delle indagini e altri personaggi che mi attendevano. Ma è stato inutile. Ihciv mi ha lasciato là come un salame e con questa pistola in mano. Ed io con questa ti faccio saltare il cervello.”
“Ti prego, no!”
Il proiettile gli arrivò dritto in fronte. Postriboli rimise in tasca l’articolo ma pensò che là dentro l’aveva conservato per troppi anni. Fece per appallottolarlo ma qualcosa richiamò la sua attenzione. Il sangue che colava dalla fronte del critico aveva uno strano colore. Non rosso chiaro come l’avrebbe potuto immaginare ma scuro e denso. Era incredibile, era davvero incredibile: quel sangue non era sangue, era un autentico fiotto d’inchiostro che aveva creato una piccola pozza. Su quella abbandonò l’articolo, tanto chi sarebbe potuto risalire a un assassino di carta?
Alzò lo sguardo al cielo e nella sua bocca affiorò un sorriso. Finalmente era tornato il sole.

IL COLLEZIONISTA DI OMBRE di Marilia Tortora


I passi vibravano nel buio affondando nel silenzio ovattato di una notte d'inverno. La luna, nascosta tra le nubi ,si affacciava nel buio come una donna intenta a pettegolare dalla ringhiera di un balcone. Lorenzo, sguardo fisso sulla strada, inseguiva la linea bianca come un levriero che insegue una lepre di plastica. Finalmente il bar, meta agognata dove ogni sera dissolve la sua solitudine in una bottiglia di whiskey.
-Ciao Carlo, portami il solito-
-Certo signor Lorenzo....il solito.-
Carlo si allontanò a passo svelto con l’andatura ondeggiante che lasciava a sprazzi trasparire, sotto il riflesso delle luci del locale, la nuca lucida e priva di capelli.
Erano ormai due anni che Lorenzo frequentava quel bar. Come ogni notte, si ritrovava lì con pochi disperati a raccontarsi in un bicchiere il suo male di vivere. Lorenzo era un attore, calcava le scene da quasi vent'anni, tutte le sere in scena a strappare applausi tra un tempo e l'altro. Cinquant'anni portati alla grande, in un corpo possente ed elegante che sembrava essere destinato da sempre ai riflettori. Il teatro gli regalava quella magica emozione di trasformista, ogni volta una nuova esistenza da inventare, rubare l'identità di un nuovo personaggio e perdersi nel mistero di quella diversità così assurdamente eccitante. Solo quando rivestiva i panni di Lorenzo, l'emozione si spegneva nel grigiore di un esistenza vuota e senza imprevisti. Per questo le sue performance teatrali finivano ogni sera allo stesso modo. Spenti i riflettori, calato il sipario, si nascondeva nel buio della notte cercando nell'alcool quella scarica di adrenalina negata alla sua esistenza. Era abituato a ridere, piangere, disperarsi, gioire, solo per sentire scrosciare quell'applauso che gli avrebbe dato la spinta giusta per risvegliarsi domani.
Assorto nei suoi pensieri, giocherellava col suo bicchiere intingendo sul fondo uno sguardo assente.
Stava per andare via, quando la sua attenzione fu attratta da un piccolo oggetto che sembrava brillare sul pavimento. Si chinò in avanti spingendosi sul bordo della sedia mentre con l'altra mano si puntellava al tavolo in cerca di un punto d'equilibrio. Riuscì a raggiungere l'oggetto e si accorse con sua grande meraviglia che era un gemello, con una strana e indecifrabile effige. L'occhio cadde su un uomo che non aveva mai visto in quel bar. Era seduto davanti al bancone a sorseggiare un caffè con movenze lente e quasi femminee che sembravano fare a cazzotti con l’atmosfera da marinai che regnava nel locale. Era vestito con uno smoking grigio antracite su cui risplendeva il bianco candido della camicia costretta al collo da un papillon di seta splendente. Lorenzo si ritrovò a chiedersi cosa ci facesse un individuo del genere a quell’ora di notte in un locale come quello. Ma non tardò ad avvicinarsi all’individuo quasi preso dalla smania di terminare quanto prima quel contatto umano inevitabile. Non era abituato a ritenere sua proprietà gli oggetti trovati e quell’uomo gli sembrava plausibilmente il possibile possessore di quel gemello .
-Mi scusi…credo abbia perso questo-.
L’uomo in smoking si voltò lentamente, in un gesto ieratico ed elegante che sembrava provenire da altri tempi.
-La ringrazio, ci tengo molto a questi gemelli, si tramandano da diverse generazioni nella mia famiglia. Ha un grande valore economico oltre che affettivo Non so quante persone sarebbero state così oneste da restituirmelo. Posso offrirle da bere? Voglio ringraziarla per la sua gentilezza..e...mi perdoni...la sua onestà-.
Lorenzo lo guardava con uno sguardo stranito. Quell'uomo poteva avere una trentina d'anni, era di una bellezza ambigua che sembrava scaturire da un eleganza fine ed antica che stonava con lo squallore di quella bettola nauseabonda e buia.
-La ringrazio,ma ho già bevuto. Stavo per andare via.-
-Allora mi permetta di accompagnarla ,faremo un po' di strada assieme, anch'io stavo per andare via.-
Lorenzo avrebbe preferito rimanere solo, come sempre, era infastidito da quella richiesta che gli sembrò strana e un po' ambigua, ma non seppe dire di no.
S'incamminarono nella notte l'uno a fianco all'altro, in un silenzio greve di imbarazzo che li rendeva sempre più estranei.
Improvvisamente,il suono di una campana squarciò il silenzio rompendo il rimbombare fragoroso dei loro passi sull'asfalto. L’uomo in smoking iniziò così a parlare mentre Lorenzo continuava imperterrito a fissare il suolo.
-Sa perché adoro la notte? Al buio non puoi mentire,sei solo e semplicemente te stesso..Tutta la tua vita ti scorre davanti quando sei al buio, mentre la luce ti spinge a fingere, a crearti un immagine che possa piacere agli altri , a quelli che condividono con te il chiarore del giorno. Di notte senti il battito del tuo cuore, sei lontano da occhi indiscreti che ti costringono ad essere quello che non sei,un involucro senza espressione e senza vita che prende le forme di chi ti sta di fronte.-
Lorenzo rimase in silenzio,ma non poteva fare a meno di riflettere sulle parole dello sconosciuto. Non poteva negare che quello era sempre stato il suo pensiero,da quando sua moglie era morta due anni prima, lasciandolo solo e disperato, lui aveva fatto della notte la sua migliore compagna e la sua maledizione. Si sentiva in colpa perché quella sera lui non c'era, quando lei era stata aggredita e violentata da un branco di balordi, lasciata esanime sul letto che li aveva visti uniti e abbracciati ogni sera da quindici anni a quella parte, lui era in scena a recitare l'ultimo atto del suo ultimo copione da uomo felice. Quella notte finì la sua esistenza per entrare nel mondo dei sensi di colpa che come spettri si aggiravano intorno al suo letto impedendogli di dormire .Fu l'alcool a salvarlo dalla sua disperazione,quando non era sul palcoscenico,il suo tempo lo trascorreva al bar immerso in un bicchiere dove affondava il suo dolore fino al giorno successivo. Solo il teatro lo faceva sentire vivo lì si fingeva libero dai suoi ricordi, da quel dolore sordo e cieco che lo schiacciava ogni giorno di più .Ma, chiuso il sipario, spenti i riflettori, tutto ritornava come prima alla solita assurda realtà che gli si parava davanti con tutto il suo carico di nostalgia e disperazione.
Per questo le parole di quell'uomo non potevano lasciarlo indifferente. Lorenzo ha spento la notte nell’alcool, perché non sopportava l’idea di confrontarsi con se stesso, di scoprirsi solo in balia delle sue colpe.
Lo sconosciuto intanto,con una luce nuova negli occhi, alzò lo sguardo verso Lorenzo costringendolo a fare lo stesso. Si fermò di botto dinanzi a lui e, prendendolo per le spalle gli si parò davanti come una belva che ha puntato la sua preda.
-Ti confesso una cosa, io ho scoperto il modo per rendere gli uomini felici senza essere costretti a nascondersi al buio della notte. Il mistero della nostra inquietudine e della nostra incapacità di essere si nasconde nella nostra ombra. L'ombra è la sede del nostro dolore, dei nostri sensi di colpa. E' la materializzazione della nostra disperazione ed appare di notte perché solo allora smettiamo di recitare e diventiamo più vulnerabili. Lei ci è davanti, ci precede nel nostro cammino, appena un raggio di luce rompe l’oscurità della notte, lei ci assale inchiodandoci alla nostra realtà, vomitandoci addosso ciò che veramente siamo, esseri scuri, limitati dai nostri stessi errori che disegnano la nostra sagoma. L’ombra è il riflettore proiettato sulla nostra anima, è impossibile fingere o ignorarla, la sua oscurità è più forte della luminosità del giorno, quando ci illudiamo che tutto ciò che ci fa star male si possa dissolvere tra i raggi del sole.-
Quelle parole furono per Lorenzo un vero e proprio pugno sferrato in pieno petto. Si sentiva confuso, scavato dentro da una forza irresistibile e possente che lo lasciava stremato e completamente inerme. Lacrime copiose cominciarono a sgorgargli dagli occhi mentre cadde in ginocchio,davanti allo sconosciuto che lo guardava col compiacimento dell'arciere che riesce a fare centro al primo tiro .
-Ti prego, aiutami a convivere con il mio dolore,aiutami a sopportare il senso di colpa..- Tu dici di sapere il segreto per non provare più dolore, Farò qualsiasi cosa se tu condividerai con me questo mistero!-
L’uomo in smoking tirò dalla tasca una scatola d'argento. Un raggio perverso, rapito alla luna, risplendette improvviso come una stella cadente spegnendosi poi lentamente nel chiarore delle stelle improvvisamente apparse a dipingere la notte
-Io posso regalarti la tua libertà se solo tu mi darai la tua ombra. Ti libererò dall'oscurità che ti porti dentro e finalmente riprenderai a vivere.
-Prenditi la ma ombra col suo carico di angoscia e di solitudine e inventami una vita che sappia restituirmi dignità e pace...-
Fu un attimo,la scatola improvvisamente si aprì mentre un dolore acuto sordo,si accaniva sulle ossa e sui muscoli di Lorenzo, strappandoli dolorosamente dalla loro sede naturale. Poi...il nulla ,niente più lacrime ,né dolore, un senso di vuoto profondo prese il posto della disperazione. Gli occhi gli si asciugarono all'istante mentre lentamente si risollevò. L'uomo, intanto, era scomparso lasciandolo solo per la strada .La luce di un lampione gli lanciò di rimando l'immagine sinistra di corpo senza ombra. Tornò a casa con la strana sensazione di aver perso per sempre qualcosa cui non riusciva a dare un nome. Non provava niente,né gioia, né dolore, questo gli bastò per sentirsi uomo.
L' indomani successivo tutto riprese come prima. Anche la foto della moglie,che ogni mattina scrutava sul comodino dal suo letto vuoto e senza vita, sembrava non dargli più nessuna emozione. Si compiacque di questo, ma non riusciva a provare gioia. La sera dello spettacolo si recò nel camerino aspettando che arrivasse il momento di entrare in scena. Ma nemmeno quello riuscì a dargli un'emozione. Un senso di profonda inquietudine lo assalì mentre bussarono alla porta per chiamarlo in scena. Fu il primo di una lunga serie di fiaschi che si susseguirono da quella sera in poi. La critica stroncò la sua performance artistica giudicandola fredda e assolutamente priva di emozioni. Fu cacciato dal teatro dopo quella serie di insuccessi.
Ridotto ormai ad una larva, si trovò una sera a percorrere la stessa via del bar. Fu allora che capì, si rese conto che un uomo non può vivere senza le sue emozioni,senza soffrire, piangere ridere. Aveva bisogno di ritrovare la sua ombra, doveva a tutti costi scoprire dove viveva quell’uomo che per sempre lo aveva rapito a se stesso, ma non aveva idea di come fare per ritrovarlo. Tutte le sere ritornò a percorrere la stessa strada ma di quell'uomo...nemmeno l'ombra. Una sera ,affacciato sulla sponda del fiume,guardava la luna ballare tra le increspature dell'acqua. Sembrava chiamarlo nella sua immagine riflessa, in quell’ombra di luce che si allungava nell’acqua quasi a volergli indicare una via misteriosa. Gli venne l'impulso irresistibile di confondersi in quei raggi,di dissolversi nella scia dorata e diventare per sempre chiarore. Salì sul bordo del ponte,come un airone pronto a spiccare il volo e librarsi sulla superficie dell’acqua. Le labbra strette in una morsa dolorosa,seccavano al vento e al freddo intenso della notte. Improvvisamente, un sapore sconosciuto da tempo,un leggero rivolo umido gli attraversò il viso e si tuffò nella bocca arsa inumidendo le labbra con una sostanza antica che da tempo non ricordava più. Fu un attimo, lo sguardo gli cadde nel fiume ed una strana figura scura,simile al suo corpo, si adagiava sul fiume rischiarata dall'aura dorata della luna. Vicino ai suoi piedi, un piccolo oggetto rotondo, brillava vistosamente nella notte. Le labbra si sciolsero in un sorriso bagnato. Non si era mai accorto di quanto fosse dolce il sapore delle lacrime….
Scese dal muretto, prese il gemello e se lo infilò nella tasca.

FERDINANDO CUOR DI LIBRO di Fabio Izzo


Nonostante tutto si trovava ancora un bell’uomo.
Riflettendo la sua immagine nello specchio come ogni mattina da quindici a questa parte.
Allontanati gli anni delle scuole, Ferdinando, aveva trovato il piacere di uno specchio al mattino
e nonostante tutto si trovava ancora gradevole d’aspetto.
Provava ancora soddisfazione a rinverdire parte de “il mito di Narciso” in un ambiente poco consono, profano, ma rituale come il suo bagno.
Ferdinando provava ogni volta a decodificare i miti, i riti, le abitudini e le consuetudini che ormai affollavano il piano dell’esistenza senza essere capite dall’occhio umano della donna qualunque.
L’uomo qualunque è sempre stato rapito da altri sguardi e non navigava più da secoli, se mai nel suo dna avesse ereditato materiale marinaro, ma si sentiva ancora come Ulisse.
Odissee su odissee.
A che pro farsi la barba se lui ricordava benissimo che nello sceneggiato televisivo della televisione nazionale, Ulisse stesso, l’eroe moderno più antico che si possa trovare nella cultura pop, se Odisseo stesso, Ulisse per i più e Nessuno per i meno, aveva un corollario di barba al suo viso?
Ferdinando non si rase quel viso seguendo le indicazioni mitologiche di una televisione distratta o di un regista che era meglio documentato di lui e dopo un azione non fatta, scese nel bar sotto casa.
Privo di Telemaco e di una Penelope a cui dar da provvedere una reggia in sua assenza, aveva però conosciuto molti Proci ma Ferdinando non era solito fermarsi a domandare dei gusti sessuali delle persone, nonostante fosse ancora un bell’uomo.
Ogni casa ha sotto un bar, strana combinazione.
Domus e tempio, Ferdinando si rammaricava ogni giorno per non aver studiato greco e latino.
Inglobato dalle sue scelte precedenti che lo avevano portato a studiare circuiti elettrici e linguaggi macchina che si estinguevano nella società informatica più velocemente del Manx (lingua morta), aveva dedicato la sua gioventù a perdere tempo.
Culture lontane nel tempo e nello spazio lo avevano per troppo tempo esiliato nel mondo moderno.
In maturità aveva scoperto uno scrittore perseguitato dalla scarsità di memoria di critica e pubblico e n’aveva ingoiata ogni singola parola, letteralmente.
Per sentirlo suo, per avere il potere di quelle parole mangiò tutte le pagine di quel libro capolavoro condito con olio e sale. Cultura sì ma stupido no.Come alcune tribù africane, che lui aveva visto solo in Porky’s quando Pipino Morris usa a scopo educativo il National Geographic, aveva praticato il suo rituale cannibalesco con la prosa magica di un maestro della letteratura.
Aveva da sempre voluto scrivere Ferdinando per scappare dalla normalità attiva della vita, aveva capito fin troppo presto che solo l’uso magico della parola avrebbe potuto spostarlo al livello gerarchico della comprensione.
C’è chi è nato per l’azione e chi per la comprensione, questo lo comprendeva benissimo.
Non era però sicuro quale fosse il suo posto o aveva compreso così bene tutto che non doveva più fare nulla o aveva fatto tutto che non c’era nulla più ormai da comprendere.
Bibbia? Letta, ma chissà in quale traduzione si domandava.
Vangeli? Letti, ma chissà in quale traduzione si poneva domanda.
La Divina Commedia? Letta, ma chissà in quale edizione si inquietava.
I promessi sposi? Letti, ma Manzoni non lo aveva mai annoverato tra i suoi lettori e questo lasciava un retrogusto amaro sulle pagine di quel libro
Certo, li aveva letti e mangiati tutti per impossessarsi del verbo. In principio fu il verbo, dopo l’azione e venne dunque la digestione.
Gadda, Pirandello e Sciascia avevano quel gusto classico, un po’ di salse francesi con Dumas, Balzac e Sartre.
Fish and chips incartati da Shakespeare, zuppe e sapori Yiddish per Singer e così via di menù in un menù per ogni giorno che alimentava la sua conoscenza.
Trovava indigesto Eco e lo aveva eliminato dalla sua dieta.
Ogni scrittore era figlio dei sapori della sua terra e Ferdinando per impadronirsene univa gli aromi alle prose.


Poteva nella suo appetito discernere libri su libri.
Li leggeva, li assoggettava e poi a seconda o meno che gli piacessero, in quanto il suo era un palato fino, decideva se deglutirli conditi o meno.
Da buongustaio qual’era si prodigava anche in qualche manicaretto, odi, sonetti che servivano a stuzzicargli l’appetito, subito da lui composti e privati al resto della riluttante umanità.
Il capolavoro assoluto aveva deciso che sarebbe sceso nel suo stomaco da solo privo di qualsiasi condimento, ma non lo aveva ancora trovato.

MA ALLORA E' VERO di Maria Antonietta Santelia


Ma allora è vero, i morti, il sangue, la folla incuriosita che si chiude a cerchio, come fosse in uno spettacolo di un’arena dell’antica Roma,l’odore della morte criminale così vicina eppure sentita a volte così lontana!!


Napoli est.



Barra.



Un venerdì sera senza pretese con una compagnella storica a prendere l’amata e consuetudinaria pizza da ”e’ guaglione”,esercizio a conduzione familiare (Totoreailoviù) che affaccia su Corso Sirena, teatro dell’agguato, per usare un gergo giornalistico, la mia pequegna amica abita qualche metro più in là dal palco, io qualche chilometro ancora più in là (punticiell’), ma le facce e la puzza sono sempre le stesse!!


Mi vantavo di non aver mai preso parte a certe rappresentazioni, nonostante la dimora senza colori nella Partenope Orientale.

Eppure annusare così da vicino la distruzione fa male, e fa male vedere l’indifferenza e l’abitudine a questa decadenza civile, ”morale”, ed etica, ma quando si è consapevoli di aggiungere un mattone al crollo è tremendamente orrendo, perché sai di stare abbassando non solo la testa, ma anche l’anima che cessa di essere, per trovare una giustificazione all’immobilità!!!


Eduardo esclamava: ”fujtevenne”, cazzo se non aveva ragione e qualche intellettuale napoletano (i) saggio/saccente diceva che era ingiusto, bhò, non sò!!


Ora una pioggia torrenziale.



Tuoni d’antologia.



Lo schifo d’ieri sera coperto da metri cubi d’acqua.

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