mercoledì 28 gennaio 2009

XXX di Sanchez


(Le ragazze che incontro parlano una lingua che non comprendo mai fino a fondo)


Trent’anni. Disoccupato. Che condizione del cazzo vero? A trent’anni ancora alla ricerca di un lavoro, un avvenire, un’identità perfino. Invece c’è chi a trent’anni è alla fine della carriera, e l’unico problema che gli rimane è investire i milioni guadagnati. I calciatori sono tra quelli. Vanno forte in Italia i calciatori. Sono belli, aitanti, ricchi, e mettono incinte le stesse ragazze che la mia vicina di casa cerca di imitare, ballando davanti la televisione mentre è l’ora del pranzo – quando sbircio dalla finestra - vestita come una troia bell’e fatta di quindici anni appena. Poche storie. In Italia funziona così. I calciatori sono i vincenti. Gli altri razzolano gli avanzi. E i disoccupati, nemmeno quelli.
Insomma dicevo. Trent’anni. Disoccupato. Ero venuto su a Pescara per un colloquio. Con l’Airone. Per diventare stewart. Da Castellammare m’ero fatto 5 ore di treno per una chiaccherata che si era risolta in meno di dieci minuti con il solito le faremo sapere. Una frase ridicola, soprattutto in quel caso. Perché l’intervistatrice mi aveva fatto fuori dopo due minuti, ma la prassi, sai com’è, mica poteva dirmelo sinceramente.
«Il suo accento mi sembra un po’ troppo napoletano», mi fa.
«Beh, sempre meglio di quello milanese», rispondo piccato.
La tizia, che era di quelle parti, ci rimase male.
«La avverto di una cosa prima di proseguire. I primi tre mesi sono senza paga. È un periodo di addestramento full time. Dalle nove del mattino alle sei di sera. Le spiegheremo le dinamiche del lavoro, incluse cento ore di volo. Il periodo di addestramento si svolgerà a Roma», così se ne uscì la miserabile, come la cosa più facile del mondo.
Dal momento che non avevo nessuno a Roma che potesse ospitarmi, e dal momento che non avevo i soldi per restare disoccupato tre mesi in attesa che mi concedessero uno stipendio, né avevo intenzione di trovarmi un lavoro serale per scoppiare del tutto, restai lì a riflettere che ero salito fino a Pescara per nulla.
Restammo faccia a faccia in attesa che uno dei due dicesse qualcosa. Alla tizia non fregava un cazzo di me. Faceva il suo. Stop. Il ruolo delle parti è crudele. Ed è sempre così. Io di qui ad elemosinare due lire, lei di lì con un contratto sicuro si lima le unghie. Dopo aver scartabellato dei faldoni, finalmente, se ne esce: «Le faremo sapere». Chiusa la porta la stronza s’era dimenticata di me, del mio accento napoletano, e del mio orgoglio.
Tornai per strada. Erano le sette della sera. Faceva freddo. Pescara si trova vicino ai Balcani. Il calore mediterraneo non gli appartiene. Trovai ristoro in un bar. Presi una Beks e mi sedetti a un tavolo.
Essere disoccupati è una situazione del cazzo. Ma questo è nulla confrontato al cataclisma che mi esplodeva dentro. Ero disoccupato da quasi un anno e mezzo, e vuoi che la noia non mi avesse quasi portato al manicomio? Senza far nulla grippi. Se non ci sei portato rischi sul serio d’essere internato. Io non è che dovevo a forza di cose fare qualcosa. M’ero piazzato a casa di mia madre in attesa degli eventi, lei, separata da cinque anni, si faceva la sua vita, io la mia, e andavamo anche a cena fuori. No, non era quello che mi ossessionava. Ma il fatto che molti credono bisogna per forza fare qualcosa per sentirci vivi. E il modo con cui la gente agiva per tenere impegnato il tempo era il vero problema. Questo modo di confrontarsi con gli altri così cinico, violento, spregiudicato. Mi chiedo, perché accanirsi tanto se alla fine vincono sempre i più bastardi, quelli meglio preparati alle battaglie? Io non voglio essere cinico, cazzo. Mi sono accorto di riuscirci fin troppo bene. Quando mi metto a competere divento bastardo, senza scrupoli, e vinco. Perché sto una spanna sopra tutti anche in questo, cazzo. Ecco il motivo per cui preferisco perdere. Mi faccio troppa pena nel vedermi così conciato. A meno di diventare come quelli che seguono i precetti del buon padre di famiglia e fanno tutto quello che devono fare per diventare dei “buoni cristiani”. E nemmeno per il “buon cristiano” sono portato. Posto fisso, auto in garage, routine quotidiana per trent’anni. non fa per me. Eppure tutte le donne scelgono entro queste due categorie di uomini. La donne sono tutte uguali: fatta una certa età battono cassa e si accasano. Con uno o con un altro delle specie è indifferente. Per fortuna non scelgono mai me.
Sono sfortunato. Avrei voluto nascere senza un coglione, o con tre palle, per dare maggiore coerenza alle mie sconfitte e alle mie vittorie. Da disoccupato si riflette anche a questo. Si pensano tante cose quando sei senza far niente. Ti guardi intorno. E ti sembra che sia tutto uguale. Che tutti facciano le stesse cose e che soprattuto ambiscano alle stesse cose. Che siano dottori, letterati, brigadieri o stewart, cercano un buco in ci svuotare, una casa, bella per giunta, con le grate alle finistre, come i gibboni allo zoo, e un casco di banane da infilarsi nel culo.
Nel bar ci sono dei quadri molto brutti con delle voluminose cornici dorate. Ebbi un deja-vu. Ricordo che una sera mi trovavo all’inaugurazione di una mostra d’arte. Era la mia donna che esponeva a dirla tutta. E c’era un professore, un certo cattedratico della Federico II, che avrebbe dovuto aprire la mostra con un discorso e tutto il resto. Era accompagnato da una ragazza, che lì lì credetti sua figlia, fino a che non gli mise la mano sul culo e la baciò in bocca. I due avevano trent’anni di differenza, poco meno. Ma non è questo il punto. Il punto è che lei era un svampita e mi aveva preso a fissare. In effetti ero l’unico abbordabile a quella mostra. Gli altri o reggevano le stampelle, o erano ubriachi, o vecchi, o froci. Questi ambienti di artisti, insomma.
La puttanella aveva occhi leggermente flessi e stupidi, di quelli che per una strana ragione fanno sesso, e di cui gli uomini perdono la testa. Mi passa vicino e avverto immediatamente il suo calore. L’umore forte del suo sesso. Si mette di fronte a me, accanto al compagno/professore che illustra le opere facendo uso del linguaggio più astruso a disposizione in modo che che la cosa assuma un elevato tono culturale. Giochetti a cui non facevo più caso. Faccio invece caso alla tizia che si aggiusta la calza, e se la tira su, lungo la gamba, piano piano. E piano piano solleva la testa lanciandomi un’occhiata. “Ti scopo!” le avrei urlato. Ma non lo feci, purtroppo. Altrimenti avrei rischiato di morire per mano della mia donna. Un’artista troppo gelosa per certe peripezie. Di certo non avrebbe capito.
Dopo gli applausi ci sono strette di mano e la mia donna viene accerchiata dal resto della banda. La tipa coglie il momento e si avvicina a me. La stronza. Mi passa vicino, sfiorandomi appena, fingendo di guardare un quadro, dandomi le spalle. Mi avvicino e le sussurro all’orecchio: «Voglio farti venire dieci volte con la lingua, maledetta baldracca…» Lei non batte ciglio. Allora persi il controllo. Era troppo. Le infilai una mano tra le natiche. Quella pazza manda un urlo forte. Si ferma tutto. Il tempo, lo spazio, gli areoplani. Tutti lì a guardarci. Compreso la mia donna, l’artista, a cui era dedicata l’esposizione. Nel momento migliore la troia mi molla un ceffone, violento, e scappa tra le braccia del professore/papà.
Appena dopo la mia donna mi avvicina, l’artista, quella gelosa, quella a cui era dedicata la serata, e mi molla un altro ceffone, tremendo. Incassai. La fissai negli occhi, nero, e uscii dalla galleria senza fare scene.
A Napoli c’è sempre da fare. Sostai in un bar e comprai una bottiglia di vino. Rosso. Camminando per strada avviai a vuotarla, sorso sorso, fino a raggiungere altri posti pieni di gente. Qualcuno dice Barcellona, Valencia, che belle città. Ma Napoli, cazzo Napoli è un capolavoro. È un dipinto. Un’opera d’arte, sul serio. Da Borgo Marinaro fino a Mergellina ti si ferma il cuore in gola tant’è bella. Allora mi avviai, con la città in fiamme, verso il casino di San Pasquale, e forse chissà dove ancora, in cerca di qualcuno per smazzare il fondo della bottiglia.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Manca lo stile.
Personaggi tratteggiati con moltissima superficialità.
E troppi luoghi comuni e banalità.
Da rivedere.

Anonimo ha detto...

non mi sembra affatto banale...anzi!

Daniel ha detto...

Lo trovo un bello spaccato di vita.
Uno sfogo senza peli sulla lingua.
è giusto così.
Daniel

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