mercoledì 28 gennaio 2009

ORME NELLA NEVE di Stefano Moraschetti


Ormai la neve stava cadendo più lieve e il vento aveva smesso di ululare tra i crepacci e le gole della montagna.
In silenzio fissavo il mio compagno di scalata negli occhi; quante avventure avevamo condiviso insieme, quante passioni e anche quanta ostinazione e spregiudicatezza ci avevano legato. Eravamo uniti come fratelli, come se fra noi ci fosse stato un nodo da arrampicata,uno di quei nodi a cui tanto spesso avevamo affidato la nostra vita.
Quegli occhi; quante volte mi avevano accompagnato, avevano vegliato sui miei passi e visto il pericolo che incombeva su di me.
Con calma uscii dalla tenda, i muscoli erano un torpore unico e appena mi misi eretto sentii la schiena scricchiolare, come fosse ghiaccio che sotto il peso del mio corpo si incrinava.
Dieci giorni,tanto era passato da quando avevo sentito per l’ultima volta l’aria frizzante sul mio viso senza che questo venisse colpito dal ghiaccio trascinato dal vento. Dieci giorni chiuso tra mura di tela e rannicchiato tra le coperte, cercando in ogni modo di mantenere accettabile la temperatura corporea
Avevo pensato di impazzire, mai avrei creduto che realmente potesse capitare che io e il mio amico potessimo restare bloccati senza possibilità di essere raggiunti per così lungo tempo.
I primi giorni erano passati come uno scherzo, facevamo del sarcasmo sulla nostra incoscienza sicuri che tutto sarebbe finito in fretta, poi dopo il terzo giorno tutto era diventato all’improvviso più difficile, sembrava perfino che il sangue fosse come acqua nelle vene, non avevamo più forza,il cibo cominciava a essere razionato e fuori dalla tenda la montagna urlava e si faceva beffe di noi.
Quanto era stato duro. Quanto era stato difficile. Eppure ora che tutto era passato, mi sentivo più forte, avevo superato il muro che mi era stato posto di fronte, certo, non potevo dimenticare di avere avuto a fianco a me un vero amico, solo grazie a lui ero riuscito a resistere, se fossi stato solo non avrei potuto niente contro l’inevitabile morte che il cielo aveva scelto per me.
Sentendo sotto gli scarponi il soffice manto di neve la osservai ancora un secondo, come era innocua, quando era così, posata sul terreno e distribuita sulla montagna come zucchero a velo su un grosso dolce.
Pensare ai dolci da sempre mi crea un buco nello stomaco, osservai dentro la tenda, preso un pezzetto di carne lo addentai con foga, era fredda e il sangue non ancora rappreso formò un piccolo rivolo che mi scese lungo il mento.
Rimasi un secondo fermo, come statua di ghiaccio, poi mi chinai, presi sotto braccio la testa del mio compagno e mi incamminai verso la vetta.
Eravamo rimasti bloccati solo a tre ora dalla cima, dopo essere stati tanto vicini per così tanto tempo non si poteva rinunciare a raggiungere la vetta.
Lasciai tutte le cose superflue al campo, tenda, zaino, ramponi, piccozze, corde, braccia, gambe, ormai quelle non servivano più.
Dopo poco più di due ore e mezza di salita mi ritrovai a guardare dalla parete nord, lo spettacolo che mi si presentava era affascinante, avevo tutto il mondo ai miei piedi, mi girai verso la direzione da cui ero venuto, la tenda non si vedeva sommersa com’era rimasta dalla neve, ma una sottile linea rossa saliva verso la cresta e si fermava ai miei piedi formando una macchia informe.
Lungo le ultime vertebre colava ancora del sangue, non ero riuscito a tranciare di netto la colonna vertebrale e questa pendeva ancora come una lunga coda dal cranio del mio compagno.
Con calma raccolsi le mie idee e con il mio dolce peso sotto braccio saltai verso il vuoto che mi si apriva dinnanzi.
In lontananza mi sembrò di sentire la montagna ridere, mentre cadevo per non rialzarmi mai più, dietro me solo orme, orme nella neve.

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